giovedì 27 dicembre 2007

Un macaco, anzi due ... (inedito di Rosalba Montani)

Andrea quel giorno era distratto.
Non riusciva a concentrarsi, più cercava di tornare sui suoi appunti, più le parole si appannavano, sottraendosi nel senso alla sua vista. Non era proprio sicuro che dipendesse da Caterina, ma certo una parte di responsabilità, lei l’aveva. Continuava a rimuginarci. Chissà che aveva voluto dire. Era sempre così vaga, piena di sottintesi. Quell’aria da eterna enigmatica. Che poi secondo lui, magari ci faceva. Altro che mistero, due pose, giusto per un idiota come lui.
Forse, più che Caterina, era questo avvertirsi ridicolo ai suoi occhi a risuonargli dentro, incessante.
- Basta!- Si alzò di scatto.

Meglio uscire visto che il diritto romano, almeno per oggi, viaggiava su binari inutilmente paralleli.
L’aria frizzante, fuori. Il piacere delle folate gelide sul viso, carezze ruvide di mani immateriali.
Si sentì meglio. Intorno il caos natalizio, con quell’aria similoro, rosso lacca, verde pino. Le vetrine sembravano pronte per lo show del sabato sera. Inutilmente luccicanti di ricchi premi e cotillon.
Natale lo lasciava indifferente, le solite cose, sempre. Il buono di certe feste è che vengono una volta l’anno. Magari sarebbe stato meglio ogni tre o cinque. Un po’ di neve non ci sarebbe stata male, ma anche questo non dipendeva da lui.
Ma ci sarà qualcosa che dipende da me? Meglio di no, che allora è sicuro che non funzionerà. Ecco, anche uscire è stata una stronzata.
Quello che lo infastidiva di più era quell’andirivieni incessante di gente. Lo urtavano malamente, quasi infastiditi dalla sua presenza. Chissà perché era sempre nel senso opposto a quello di marcia. Non che lo fosse, almeno a lui non sembrava, ma negli sguardi incrociati per caso ne avvertiva come il muto rimprovero. Tutti così determinati, sicuri. A un passo dalla meta. Ma quale meta?
Me ne torno a casa, meglio…
Quasi inavvertitamente si avviò verso i giardini. Giardini è una parola grossa, in effetti, per quello spazio strangolato tra il cemento e l’asfalto, due tigli e quattro cespugli d’oleandri, uno spiazzo di terra battuta e qualche esile ciuffo di verde, come su di un lucido cranio i capelli fieramente sopravvissuti a tempeste di testosterone. Una panchina sbilenca, con le assi di legno sconnesse. C’è sempre qualcuno che si diverte a ridurle così. Andrea si accomodò, quel luogo aveva la desolazione giusta, per starci dentro comodo, oggi.
Toh! E questo cos’è? L’avranno dimenticato.
Rigirò il libro tra le mani. “I due macachi”. Il titolo non gli sembrò un granché. Gli tornò in mente quella vecchia storiella del discepolo che vuole diventare saggio e per illuminarsi cerca di non pensare alle scimmie, restandone ossessionato.
Il macaco è una scimmia, no? Se almeno riuscissi a non pensare a Caterina. Ma deve essere una scimmia anche lei, visto che dal mio cervello malato non vuole andare via.
Un libro sottile, un centinaio di pagine, non di più. Raccolta di racconti, una copertina marrone stinto, con disegni geometrici vagamente floreali, come il velluto di certi divani o la tappezzeria di un tempo andato. C’era una dedica, sulla pagina bianca interna, una grafia sottile, incerta e tondeggiante, sicuramente una mano femminile. Due sillabe: Per te. E sotto un ghirigoro incomprensibile dell’autrice, che resterà ignota ai più. Nella quarta di copertina tanti nomi, in rapida successione di note biografiche abbozzate, ma ad Andrea non dicevano nulla, esordienti, pensò.
A ridosso della panchina, il lampione spandeva un chiarore giallastro vagamente retrò, contendendosi il buio col neon azzurrato e spettrale dell’insegna vicina. In quel chiarore innaturalmente neutrale, Andrea s’addentrò nel libro. Il ritmo della lettura era scandito, in lampi dorati e rossastri, dall’intermittenza delle luci natalizie della vetrina due metri più in là.
L’introduzione lo sorprese. Assenzio, l’Ottocento parigino e il "magasin de nouveautés" in Place de Saint Germain des Prés. Si sentì un po’ sciocco, con quella storia delle scimmie zen.
Le pagine erano di quella carta leggermente ruvida dai bordi irregolari, un po’ spessa, che lascia sotto i polpastrelli un che di farinoso. Alzò il libro e l’annusò. Sapeva di buono, come di pane stagionato in una vecchia madia. Ogni libro ha un suo odore caratteristico, un misto tra polpa di pane e d’inchiostro, declinato in mille umori, tra sfumature secche e sentori di muffa. In quello stato d’animo confuso tra il bohemien e le campagne toscane, Andrea lesse ancora.
E scoprì un popolo d’antiche e fiere guerriere, alla conquista di nuovi mondi. Percorse un intero universo tra un albero ed un muro. Apprese di Kona e Kina, di quanto siano micidiali, le armi degli umani. Poi si imbatté in una strana specie stravagante e le sue astuzie e sotterfugi per sopravvivere, per appropriarsi di uno spazio nella nostra vita. Andrea pensò che era sicuramente da salvaguardare, come specie. Costeggiò il dolore, perdendo tutto e mai la dignità, sconfitto da una giostra e da un sogno, mentre s’accendevano tutte le luci del mondo. Scoprì che anche un byte poteva avere una sua visione del mondo e ne condivise la terribile fine, sentendo che anche la sua vita sarebbe finita in un ciclo e la sua consapevolezza fusa col nulla. Si lasciò attraversare da venti di guerra, tra le pagine fitte di storie che compongono la storia. Pagine tristi e non fiere, di un passato mai lontano.
“…era meglio si facesse trascinare dalla prima boccata di vento buona verso Marsala.”
L’ultima riga, non era l’ultima, però. Pian piano nella sua mente prese forma un’isola lontana e possibile, con fuochi accesi sulla spiaggia deserta. Tra le capriole di fumo dei falò, percepiva le presenze. Gli sembrava di scorgere dei volti e, nei volti, sempre nuove identità. Tra i volti vide il suo e non se ne stupì.
Fine
Andrea si scosse, con la delusione di chi, ridestato bruscamente da un sogno, fatica ancora a congedarsene. Mentre richiudeva il libro, un pensiero tornò a farsi sentire. Acuto come uno spillo.
Già, Caterina… una storia che non ho scritto ancora, che forse non scriverò…
Arrotolò il libretto a tubo e lo compresse per bene nella tasca del giaccone. Un vago borbottio dello stomaco, forse era bene mandar giù qualcosa. Alzandosi si sentì un poco intorpidito, formicolante, la punta delle dita gelida, stranamente leggero. S’accorse quasi di colpo del tempo trascorso.
Non c’è più in giro nessuno… Accipicchia, com’è tardi!
Con quella strana leggerezza dentro, che nella mente diventava soffice ovatta, si avviò verso casa.
Un poco saltellando, per scuotersi da quell’immobilità nel gelo. Di colpo, capì.
Capì e sorrise, sulle labbra e nel cuore.
Ieri era finalmente ieri, non solo poche ore fa.

lunedì 24 dicembre 2007

“Generazione fregata” (inedito di pourquoipas)

Caro Mario,
la nostra è una generazione fregata dalla Storia e adesso, senza pretesa di scrivere un trattato sociologico, ma solo raccontando quelle che furono, e sono, le mie percezioni, cercherò di spiegarti il perché.
Nel 1969 avevo 14 anni e, pochi giorni prima di Natale, mio padre venne, una sera, a prendermi in palestra e, nel riaccompagnarmi a casa, mi disse che c'era stata una strage a Milano: era la bomba di Piazza Fontana.

In quegli anni, prima e dopo quella sera di dicembre, di stragi, bombe, scioperi e manifestazioni ce ne furono tante. Ho ricordi confusi di quel periodo, ma vividi: il Ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, intervistato dal telegiornale davanti ai cancelli di una fabbrica occupata, la voce fiaccata dal tumore che, da lì a pochi mesi, lo avrebbe ucciso; gli studenti del maggio francese con i loro slogan: “Ce n’est qu’un début continuons le combat!” e le loro utopie; Rudi Dutschke e Daniel Cohn-Bendit, apostoli del movimento studentesco prima e fondatori dei Verdi poi; i cortei in piazza, l'occupazione dell'Università Statale di Milano, gli scontri tra gli studenti e la Celere, i morti da ambo le parti: Antonio Annarumma, ucciso in piazza pochi giorni prima della strage di piazza Fontana, e poi Giuseppe Pinelli, anarchico fermato dalla polizia dopo quell'attentato, che vola fuori dalla finestra della Questura di Milano (interrogatorio finito male? Suicidio? Non so e, forse, nemmeno mi interessa saperlo). E questo solo per citarne due, i primi che mi vengono alla mente.
Passano gli anni, e io cresco; sono gli anni di piombo, scanditi da esplosioni e dal crepitio delle P38, ma la mia vita continua apparentemente normale, anche se il telegiornale stila, giorno dopo giorno, bollettini di guerra con cronache di mortammazzati.
All'Università un diciotto non si nega a nessuno (e stiamo pagando, o meglio, i nostri figli stanno pagando questo lassismo) e il trenta negli esami di gruppo è d'obbligo; al liceo il sei politico è all'ordine del giorno, salvo se il prof ha le palle e se ne frega. Pensa la nemesi: l'altro giorno, davanti all'Accademia di Belle Arti occupata ho letto la richiesta di premiare la meritocrazia. Decisamente i tempi sono cambiati e, forse, i ragazzi di oggi hanno le idee più chiare di quanto le avessimo noi.
Finiscono le scuole superiori e inizia l'Università e troviamo una nuova compagna di viaggio: l'eroina, narcotico per il corpo e la coscienza. Quanti morti ... una guerra, un'altra: uccisi da un'iniezione nei cessi della scuola, o su una panchina dei giardinetti, nell'androne di un palazzo. Spesso soli come cani, soffocati dal proprio vomito e da quella porcheria che si iniettavano nelle vene, dove c'era di tutto: gesso, talco, intonaco, farina e, perché no, pure un po' di brown sugar. Il rito del limone, del laccio, del cucchiaino e dell'accendino, la ricerca, a volte affannosa, di una vena che non fosse al collasso. A uno, in crisi di astinenza, una volta gli amici fecero una pera, ma le vene delle braccia erano rovinate, e idem quelle delle gambe. Non trovarono di meglio che bucarlo sulla grossa vena che sovrasta il pene. Storie, storie che sconfinano nelle leggende metropolitane come quella del voyeur del buco, un arzillo vecchietto che, in un parco pubblico, spiava indifferentemente chi si bucava e chi faceva l'amore. Ciaicentolire era il ritornello che ti seguiva ovunque, lungo le strade più frequentate, nelle metropolitane, alle fermate degli autobus, nelle stazioni ferroviarie; chi non era così allo sbando da biascicare quella richiesta, imbastiva pietosiissime storie di treni persi e portafogli rubati, di mamme morenti e di biglietti ferroviari da acquistare con urgenza, pur di raccattare qualche spicciolo. Quanti ne ho finanziati, aiutandoli, forse, a finire con i piedi in avanti. Che rabbia! Ragazzi che si autodistruggevano per fuggire, ma da cosa? Da una famiglia perbenista e repressiva? Da un ambiente sociale miserabile e senza speranze? Dal degrado di certe periferie costruite da palazzinari senza scrupoli e prive di servizi e di centri di aggregazione? Dalla noia? Dall'ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto?
E la polizia che sapeva, conosceva chi si bucava, chi spacciava e chi faceva entrambe le cose e tendeva a sorvegliare la situazione, intervenendo solo quando non poteva fare diversamente. A volte arrestava qualche ladruncolo, a volte beccava lo spacciatore, a volte, forse, portava pure qualcuno in campagna per avere un robusto scambio di idee con lui. Ricordo che, in una strada commerciale della mia città, vicino al centro, una volta vidi un ragazzo, frequentatore abituale della vicina piazza nella quale i “tossici” facevano costante capannello, che aveva un ascesso grande come una palla da tennis, lucido e paonazzo, su un braccio e cercava di convincere due poliziotti che non aveva bisogno di aiuto, che non voleva andare all'ospedale.
L'eroina, droga solitaria, che contrasta con lo spinello, la canna che si fuma in compagnia. Allucinazioni, squilibri, eccessi anche in questo caso. Un ragazzo calabrese, all'Università dove andavo, il sabato e la domenica restava solo, perché i suoi abituali amici e compagni di fumate tornavano a casa. Lui restava lì, come un torsolo, e senza roba. I soldi della borsa di studio non gli permettevano di acquistare per l'hashish, e la famiglia, poverissima, quattrini non gliene mandava di sicuro. Lui contava sul fumo che gli passavano gli amici benestanti, quando c'erano ... il sabato e la domenica fumava di tutto: foglie di tè, bucce di limone seccate, chissà quali altre schifezze. Lo hanno trovato mentre camminava lungo i binari della Bologna-Milano, in preda a un evidente stato confusionale. Se fosse finito sotto un treno sarebbe stato, in pochi mesi, il terzo morto in modo violento tra gli studenti dell'Università. La droga come rifugio dalla depressione? Forse in quest'ultimo caso sì, ma negli altri due chissà cosa scatenò il volo nella tromba delle scale e la fucilata in bocca. Solo Dio e la loro anima, ormai, lo sanno.
Altra nemesi: le droghe della mia generazione erano sedativi, al massimo, come i derivati della canapa indiana, allucinogeni. Adesso le droghe sono eccitanti, “veloci” sia negli effetti che nel distruggerti il cervello. Forse, e scusa il cinismo, è meglio così: un'autodistruzione veloce è, senz'altro, da preferirsi a una lunga agonia.
E ancora bombe, e le Brigate Rosse che gambizzano giornalisti, rapiscono generali e politici, ancora manifestazioni e cortei. Il sole era diverso in quegli anni, sembrava cupo, come spento. La mia vita, però, continuava normale: avevo libertà che i miei genitori non avevano mai avuto, potevo pure permettermi di risponder loro male senza esser preso a cinghiate. Lo studio? Lettore avido e onnivoro, leggevo di tutto, ma lo studio finalizzato non era arte mia: l'Università era un esamificio, dove si aveva successo solo se si davano esami a catena, non importa che poi non imparavi nulla, l'importante era gonfiare il libretto. Io studiavo per il piacere di conoscere le cose: impiegai sei mesi per preparare l'esame di botanica generale, che, normalmente, non ne richiedeva più di un paio, ma sapevo tutto, veramente tutto. Un esame non mi interessava? Chissenefrega, non lo davo, rimandavo.
E, come me, tanti miei coetanei, come me troppo giovani per aver fatto il Sessantotto, lanciati alla scoperta di un mondo che vedeva i ragazzi andare a scuola non più con la giacca e la cravatta, ma col maglione e l'eskimo (ricordo, come un'allucinazione, una vetrina che esponeva un eskimo griffato Pierre Cardin, la moda che scopriva la rivoluzione) e dare del tu ai professori, a godersi la libertà di uscire la sera e di fare tardi, a invidiare un po' i più scafati, che si appartavano con le ragazze.
Le ragazze, già, come non ricordarle? Il femminismo, le streghe che sono tornate, l'allergia al reggiseno (chissà perché le più allergiche, di solito, erano quelle che di seno ne avevano di meno). Dall'alto dei miei quasi due metri d'altezza, d'estate sbirciavo (involontariamente, ovvio!) nelle scollature delle amiche mie. Vestivano uno schifo, con i loro gonnelloni a fiori, gli zoccoli e i calzettoni a righe sopra il ginocchio, ma con loro si poteva parlare, anche se si provava un po' di soggezione. E poi, nei centri sociali o durante le occupazioni delle scuole, magari ci scappava anche qualche politicizzatissima scopata. Siamo stati forse i primi a provare una certa libertà di costumi sessuali, e credo l'abbiamo pagata negli anni a venire. Moltissimi coetanei, maschi e femmine non importa, hanno avuto matrimoni fallimentari, finiti in divorzi, dopo separazioni più o meno burrascose.
Ascoltavamo i Pink Floyd e i Led Zeppelin, De Andrè (mi manchi, Fabrizio, quanto mi manchi) e Francesco Guccini ma anche (di nascosto) i Cugini di Campagna: sono bravissimo a cantare “Anima mia" in falsetto. Le letture, poi ... Siddartha era d'obbligo, e poi Keruac (io preferivo Hemingway, ma mica lo raccontavo in giro); si faceva dell'anticonformismo una conformistica professione di fede.
Poi, come Dio volle, si passò dagli anni di piombo alla Milano da bere, ma, intanto, il treno non si era fermato: la mia generazione aveva scialacquato un patrimonio di talento e di idee, l'immaginazione non era andata al potere e una risata si stava apprestando a seppellirci. Facci caso: quanti sono i cinquantenni che, in Italia contano veramente? E quanti, invece, i sessantenni, e i quarantenni? Già, la rivoluzione degli anni Settanta aveva portato al potere i nostri fratelli maggiori, mentre gli anni Ottanta stavano producendo lo yuppismo e premiando i nostri fratelli minori.
Capito, caro Mario, perché la nostra è una generazione fregata? O troppo giovani, o troppo vecchi. E quanti di noi sono scomparsi? Troppi, forse i più geniali, forse i più sensibili o, forse, soltanto i più deboli.
Andrea Pazienza non c'è più, entrato in una delle sue storie di Pompeo, Pier Vittorio Tondelli nemmeno, uscito di scena perché ucciso dall'AIDS, quella malattia che un omofobo dichiarato definì, una volta, “il diserbante per i finocchi”, con sprezzante crudeltà. E Rino Gaetano? Di noi un po' più grande, ucciso dalla sua Volvo e dal ricovero negato in cinque ospedali, come accadde al protagonista della sua “Ballata di Renzo”. Che spreco, che spreco di talento e di genio, fregati anche in questo.
Un'ultima, ironica, prova di quanto la Storia (grande puttana con la “S” maiuscola) ci abbia fregato? Poco dopo che avevo compiuto diciannove anni il conseguimento della maggiore età fu portato, per legge, da ventuno a diciotto anni ... che fregatura!!! Se marinavo la scuola dovevo chiedere ai miei la giustificazione, ed erano prediche. Onesto come sono, infatti, ritenevo riprovevole falsificare una firma.
Che ti posso dire di più? che a distanza di trent'anni mi sento un reduce, scampato a tante battaglie e non tutte vinte, caro Mario, e che, adesso, voglio solo la pace e la tranquillità di un porto sicuro, dove vivere sereno gli anni, spero tanti, che mi restano.

Un abbraccio fraterno.

domenica 23 dicembre 2007

"Nostos" (Inedito di Tania Giuga)

Un ritorno, ti conosco sotto la luce della grazia.

Ti stavo aspettando. Entra. Durante questa lunga assenza, il pensiero inventava un sorriso, ripassando il biglietto che m’infilasti in tasca prima di partire. Se ricordo bene, scrivesti che ti mancava il mio malizioso indugiare dietro la porta d’ingresso, per coglierti alla sprovvista, in penombra, con un bacio. Di rannicchiarmi, scomparendo sul sedile anteriore dell’automobile, aggrappandomi alla tua mano posata sul cambio.
In viaggio ho ripercorso noi. Nei rari giorni senza maestrale, mentre la campagna assordante di cicale si inaspriva, bevendo il turchese salmastro del mare. Ogni tanto una spina acuminata, dritta e spavalda, interrompeva il silenzio modulato dalle nostre mille parole d’amore. A beffa della distanza, ti stanavo a ogni angolo. L’andirivieni della gente in ozio, allungava un minuto d’ombra sulla mia schiena, tra occhiate frettolose e passi distratti sulla rena. Ma il tuo odore mi ha sempre accompagnato, con l’aroma stordente del giorno che deve morire. Quando le tue labbra cercarono le mie, la prima volta, nel concitato frastuono di una nottata euforica, io assaggiai il brivido di una familiarità fraterna e assoluta; pensai d’essere nuda e quella naturalezza avida e svestita, l’abito più consono alle nostre conversazioni.

Perdonami l’enfasi, l’inclinazione lirica è un difetto duro a spegnersi. Intanto che salivi le scale, lo stomaco mi si torceva, nel timore di qualche dettaglio estraneo al tuo modo definitivo di sorridermi, di camminare danzando. Ci salutiamo da confini adiacenti e biforcati, mentre villeggi molle e svagato con la tua famiglia.
Appena giunta, i bagagli disfatti per metà, l’immancabile Benson tra indice e medio, mi cullo nell’assolata tranquillità della casa materna, evitando di riallacciare vecchie amicizie, per non svelare di te a compagni comuni, per sottrarmi al giudizio facile, al rischio delle confessioni che nella calura meridiana sono divulgate per tedio incombente. E tu che pensavi di stringere tra le braccia una sfacciata virago metropolitana! Ora che ti posso ghermire nella calma della semplicità, ti pettino i capelli ondulati e ribelli con le dita e mi pervade un lieve tremito, annusando la tua testa brizzolata. Ironizzi sulle mie conquiste. Ribatto giocando a ingigantire il tuo inossidabile fascino; maturo seduttore di ninfette sprovvedute! Ma nemmeno un residuo di sarcasmo offusca il tuo sguardo bruno e acquatico, che esplora la mia pelle abbronzata. Era scritto, di questo ritorno in te, da un destino preciso che ha fatto i conti con altri regimi di prossimità. Avvolta nella nuvola del profumo che mi lasciasti in pegno, entrambi stregati dalla memoria olfattiva, ci muoviamo nel buio creato per lenire qualsiasi imbarazzo, ci alziamo e abbassiamo uno contro l’altro…Siamo così vicini, da confonderci, eppure un’ombra, una lama di uggia, di buio, s’insinua a pugnalare la bellezza, i sussulti ritmici di una fratellanza fisica e spirituale. Ci somigliamo, il cuore come la luna, sterrato da antichi crateri. Il tempo, il tempo, il tempo, una pasta corposa, un nodo intrigante di vizi e virtù. Quanto ne abbiamo, quanto ce ne rimane, a chi lo neghiamo, mentre ce lo regaliamo. Mi vesto di bianco, è un colore pio e orgoglioso, aperto e vago. Ti prendo e curi ogni male. Sei mesi di catarsi, di immemore sonnambulismo.
Sola, distesa sul divano, lascio che l’anta della porta finestra sbatacchi per ore, con cadenza uguale e metallica, accompagnata avanti e indietro dalla mano dello scirocco, greve d’umidità. Esanime, mescolo rievocazione e scorci immaginari del libro giapponese che sto sfogliando annoiata. Un cattivo romanzo, tradotto con approssimazione, nel quale succede di imbastire l’abito ad un po’ di relitti adolescenziali.
Parliamo stretto, impulsi trasmessi in alfabeto Morse, un lessico di sistoli e diastoli, un alito lungo.
Slittiamo nel piacere amaro della resa e, mentre ci tempriamo, simulando che ognuno imbocchi di lì a poco divergenti tragitti, seguitiamo a bagnarci l’uno nella fonte dell’altro. Prigionieri spontanei di un cerchio privato, che questi quartieri e questa terra bollerebbero come amorali e sacrileghi; eppure la nostra è la storia più vecchia del mondo.
Amanti per volontà pervicace da naufraghi, condannati a trarsi in salvo, sempre.
Muore la quiete clandestina, i labirinti di foglie, travolta da mulinelli di venti contrari; mi proteggo con le tue camicie blu, seconda pelle di cotone e lino. Ma questa è la partita a scacchi degli eventi, concepita al rovescio: chi perde si strapperà al pericolo.
Siamo, per un attimo, poi, fortuitamente, per un altro ancora. Ti stendo sulle guance il belletto del passato, al quale mi avvinghio per capire; apriamo ferite e cauterizziamo tradimenti, facciamo l’amore.
Tua moglie presentì, nei suoi sogni, anni addietro, con largo anticipo: mi malmenava per averti sedotto.
Ti conosco, sempre meno, ancora di più, quando approdo e ti discosti, non disponendo della facoltà di annullare il mio disadorno io, il possesso, l’attaccamento. Scambio il posto con te e divento marito, anche se l’ufficialità di una relazione non mi si addice. Sarei codice conforme di ciò che è bene, quel che è lecito, opportuno, spesso fasullo.
Stavolta tocca a me rinunciare a incontrarti, in favore dell’estate altrui.
Torni alla base, al tuo guscio di occupazioni e smaniose insofferenze, io, alla mia civettuola accoglienza dello svago, zeppo di mondanità. Siamo terrorizzati, forse per la nostra incallita doppiezza, forse perché assuefatti a omettere e raggirare, ma sempre dietro l’aureo paravento di una sensibilità capricciosa e nostalgica. Tremanti, senza dispense, davanti all’ipotesi della desolazione affettiva. Oggi ci muovevamo separati da una membrana di spazio: fuori, una striscia di massi vulcanici affollata da bagnanti feriali; dentro, il tuo fantasma scherzava nella medesima stanza dove ero già stata la tua infreddolita amante. Assorbita dalla domenica dei pranzi ansiosi, da mia madre - dopo tanti anni le ho offerto il braccio senza avvertire repulsione, capisci, si è appoggiata a me per restare in equilibrio sugli scogli - e ho percepito la sua fragilità, quel lieve sopravvenire di una nuova epoca, all’interno della quale i conflitti si smorzano, diventano di poco spessore, come le nostre diversità. Si nasce soli, si vive in solitudine, ma non è poi un così malvagio procedere. Se qualcuno ti osserva in profondità, oltre il limite del giardino, delle siepi civilizzate dal quotidiano, di là dalla paura della notte che avanza e ti trova accovacciata davanti alla tv. Parlami piano, adagio varca le diffidenze e la limitatezza di fissare il cielo dal fondo di un pozzo, circoscrivendolo all'interno di un angusto tondo azzurro; ma non dare assetto troppo stabile alle nostre vite, altrimenti non resterebbe più nulla da fare, niente per cui valga la pena di rilanciare l’intera posta sull’infido tavolo verde.
Al cambio di stagione, di schianto, qualcosa inaridisce e rantola. La flebile tela della sciagura annunciata, che tanto contenta il mio egotismo, bussa con violenza; l’abituale vocazione a rappresentare il mondo come se non vi risiedessi. L’accumulo forsennato di orme a testimonianza del passaggio, nello zaino grave del presente che si svuota di colpo. Settembre. La consorte esce di senno! Con un solo gesto ribalta il racconto, nullifica il miraggio di sollievo racchiuso in un calice di leggerezza, seppur colpevole. Quella, che tutto sa e tutto vede, dal bieco scranno di un ruolo difettoso e centrale, ci condanna e ti riassorbe, difettoso e connivente, in grembo, con l’esca della vostra reciproca colpevolezza. Si segrega nella sua stessa carne tumefatta. Tu sei la vanga, io il machete, il badile implacabile usato dal rito arcano che a tutti noi attribuisce un posto, impedendoci di avvicinare un plausibile motivo, per quel che siamo stati chiamati a fare. È apparso il delirio, me lo sento nello stomaco con vuoti di fiato; sto, fermissima, per non farmi trovare impreparata. Una ragnatela robusta ci cattura, laddove i ragni che Lei vede affollarsi sul pigiama blu, il vestito delle tenebre dentro la sua mente sconnessa, lambiscono anche me. Gira, gira la testa e i pensieri con essa, in un vorticoso dibattito interiore…
Chi dovrebbe essere rinchiuso? Noi? Lei…Per rimanere a galla è necessario riattaccare una ragione semplice a tutti gli intervalli che rapiniamo.
Ho il sospetto di vestire i panni del boia: per attributo la pretestuosa lacrima di coccodrillo, incollata al viso dagli sputi di una folla benpensante. Giuda che tradisce Cristo. L’Iscariota! Eletto altrettanto proditoriamente dalla storia come arma raffinata di un suicidio vicario. Il racconto si trascina a valle, lo spartito della luce blocca le pause, sollevando ombre gigantesche. Scacco al re, alla regina e ai fanti! Tutti i pezzi abbattuti…girogirotondo quanto è bello il mondo…cade giù la terra, tutti giù per terra…
Ma siamo seri! Abbiamo raccolto un minuto per volta, accantonando i progetti, le speranze, i pretesti, tutto per non soffocare un germoglio trapiantato in un campo che altri hanno già provato a dissodare, prima e meglio di noi, con mediocri risultati.
La scommessa è di ignorare le regole del gioco e alterare gli esiti: essere scacchiera e pedina mai. Desiderami ora, se credi, dopo non più, più tardi. Non ancora.
Strattona il buon senso, la prevedibilità delle relazioni dall'esito già designato, che, per sfinire, devono riconoscersi in un incipit ben preciso: una data, un’ora, la ricorrenza di un’insopportabile dolcezza, disegnata a matita sul palpito irripetibile.
Ci rincorriamo da sempre, intrecciando cene e chiacchiere, sesso e gelosie, confessioni e psicanalisi. Vado, il tempo mi prende a calci affinché io segua la costa frastagliata dell’esitazione. Ti lascio tutti i miei pezzi anatomici: cuore, reni, polmoni, tiroide e fegato dalla bilirubina alta. Non ti muovere. Fai che possa disperarmi da assente, nel chiostro nebbioso di un’altra latitudine.
Avremo in cambio specchi deformanti, nel fondo dei quali l’unico riflesso sarà il verde guasto di una palude limacciosa; via i porti! Via gli ormeggi! Faccia a faccia con la risata oscena dell’infanzia…Torneremo!
Questa fabula si trascrive e intanto si vive. Ti pronunci con sguardo lontano: sono l’uomo invisibile, mi vedi? Non esisto. Uno scricchiolio fa dubitare che il mobilio sia nuovo di zecca, mi s’annebbia il panorama di smisurati presenti. Ti bacio ancora, con un retrogusto aspro e chiedo da sordomuta: torneremo?

giovedì 20 dicembre 2007

"Sette minuti a piedi" (Inedito di Paola Di Girolamo)

Anche stamattina decido di passare da Lino che, con sorriso sornione, mi saluta da dietro gli occhiali, stringendo gli occhi a formare una raggiera uniforme di rughe sottili.
Non c’è mattino che non trovi sua moglie Maria indaffarata a rivoltare sottosopra il piccolo bar. Con la pezza un po’ umida passa in volata su bottiglie, mensola, bancone, cassa. Drin. Puntualmente, Lino mi pone la stessa domanda: “L’acqua come la vuole?”.
“Una bottiglia da un litro e mezzo, liscia, fresca”.
“Grande?”. “Naturale o frizzante?”.

Annuisco a entrambe le frasi. Lino mette la bottiglia accanto alla cassa.
Deposito automaticamente un euro e venti sul piattino di vetro. Esco di corsa, alzando la mano per salutare.
Sulle mie spalle grava il peso del portatile. Mi aggiusto gli spallacci dello zaino, doppi e imbottiti. Sono ormai lontani i tempi dell’Invicta di tela leggera dove entravano a mala pena i quaderni piccoli.
Anche oggi mi siedo con riluttanza. Un nuovo giorno alla scrivania.
Da sei mesi ho cambiato città: vivo in periferia. Ma a poca distanza dal centro. Sono laureato, ma non credo che serva a molto specificarlo. A volte penso di omettere questo particolare dal mio CV. Quando ricordo con quanto orgoglio i miei genitori mi guardavano, il giorno della mia laurea, un anno fa, lo inserisco. Almeno per evitare che qualche sprovveduta segreteria contatti casa mia per chiedere se voglio accedere ai corsi di professionalizzazione, che la regione offre ai disoccupati con licenza media superiore.
È incredibile come le informazioni viaggino velocemente e senza filtro in tempi come questi, dove tutti si riempiono la bocca di termini come “privacy” e “diritti”.
Meno venti. Meno dieci alle diciotto.
In un ideale scanning dei discorsi dei politici in TV, negli ultimi dieci mesi, le tag più diffuse risulterebbero essere sicuramente “opportunità”, “giovani”, “futuro”, un po’ messe alla rinfusa e giocate a piacimento, con il solito cruccio in viso e lo sguardo contrito.
Sono stagista da una vita come i miei tre amici: tutti laureati, tutti fuori sede.
Li contatto velocemente per sapere come vanno le cose. Non sono online, tranne uno che anela: “Vacanze venite a me”. Degli altri mi faccio un’idea al volo quando leggo la frase accanto al nick: “Cos’altro mi deve capitare?” e “Ora estoy mejo”, chiedendomi perché mai uno debba ostinarsi a parlare l’itagnolo.
Lo chiamo. “Che succede?”.
“Mi danno duecentocinquanta euro questo mese”.
“Ammazza, non sarà mica impazzito il tuo capo?”.
“E te?”.
“Sono uscito ora, ci sei questo weekend? Pensavo di tornare a casa. Non vedo i miei da due settimane. Mia madre non fa che dirmi che sono una voce di spesa onnipresente nella sua lista mensile e che la chiamo solo per…Vabbè, la storia la conosci già. Scusa Carlo”.
“Ma figurati, ora ti saluto. Sono in autobus e il tipo accanto a me mi sta strattonando per sedersi”.
Sento un vociare in sottofondo. Carlo chiede scusa e si prende un “maleducato!”.
“Ok, a presto”.
“Ciao”.
Sto per fermarmi a far la spesa, ma mi rendo conto, quando sto per entrare, che il bancomat non mi permette di ritirare. La carta è smagnetizzata.
La tipa alla cassa mi guarda inarcando le sopracciglia. Arretro un po’. Poi fingo di ricordare un impegno, portando di scatto la mano sulla fronte. Troppo. E troppo meccanico il gesto. Finto. Esco con passo lungo, sotto lo sguardo insospettito della cassiera.
Passando di fronte al bar di Lino, intravedo sua moglie che armeggia con scopettone e mocio. Lino fuma una sigaretta sulla porta. Non lo saluto, pensando che non mi riconosca.
Mentre gli passo davanti mi segue con lo sguardo.
Un senso di insicurezza pervade il mio incedere lento. Metto male i piedi l’uno dopo l’altro, inciampo a volte nel mio passo. Caspita.
So di non avere l’aria di chi sa dove sta andando e soprattutto dove andrà. Mi concedo di credere che la vita sia stata ancora poco generosa con me per via dell’età. Trentadue anni. Non sono pochi. Non sono certo tanti, mi ripeto convinto tra me e me, mentre entro in casa.
Ines, studentessa Erasmus, ventiduenne, olandese, incrocia il mio sguardo: “Is everything OK?”.
“Sure”.
È intenta a sottolineare da un tomo alto dieci centimetri. Studia architettura. Sa già che diventerà un famoso architetto, come suo padre.
Sua madre, insegnante, gliel’ha descritto come un uomo “altruista, elegante” e “architetto”.
Ha una sua foto, di spalle, che conserva sempre in ogni libro che legge. Alla fine di ogni capitolo la sposta, consumandola nel tempo con le dita sicure e veloci.
Sono ancora vestito mentre cerco di addormentarmi, ma la voce di Janis Joplin mi rimbomba negli orecchi: “Oh, lord, want you buy me a Mercedes Benz…”.
Sento bussare. È Ines, che non riesce a dormire. Ha sentito sua madre per telefono. Verrà a trovarla presto in Italia e lei non sta nella pelle. È talmente entusiasta che per la quinta volta mi ripete: “Mum’s coming!”.
Mi ha contagiato con la sua gioia e, guardandola dritto negli occhi, continuo a sorriderle per un tempo infinito.
Mi addormento così. Sono contento per lei. In sogno le corro incontro e l’abbraccio, cingendola con le spalle forti.
Mi sveglio al mattino con la sensazione di aver corso troppo. Mi specchio e noto che le spalle magre mi fanno sembrare ridicolo al cospetto del ragazzino del primo piano: gioca a calcio da quando ne aveva cinque. Ora ne ha sedici e spero vivamente di aver cambiato casa, prima che ne compia venti.
Incrocio velocemente Ines in corridoio mentre mi accingo a far colazione. Mi saluta e, con voce squillante, urla che Matteo e Giovanni sono ancora a letto. Esce sbattendo la porta: è euforica.
Temo per un attimo, ma per fortuna nessuno si sveglia. Quei due si alzeranno che il sole sarà già alto. Forse persino al tramonto.
Giovanni è studente di lettere. Fuori corso. Non so precisamente da quando. Ricordo che, quando mi iscrissi all’università, Giovanni era già qui da un anno o due.
Matteo lavora di notte. Fa il barman per pagarsi gli studi di grafica. Inizia alle sei del pomeriggio per mettere in ordine i tavoli e torna a casa ogni notte alle tre, per cui non è che gli rimanga molto tempo per fare altro, escludendo le ore di sonno.
Mi rendo conto di aver fatto tardi e mi infilo in ascensore mentre finisco di inghiottire un plumcake. Passo da Lino ma tiro dritto. Non ho molto tempo da perdere.
In mattinata il capo mi annuncia, con pochissimo preavviso, che non può tenermi ancora. Neanche come stagista. Non sarebbe giusto.
“Giusto?”.
“Si, hai trentadue anni. Non possiamo bloccarti in una realtà in cui non c’è possibilità di crescita per te”.
“Ma, perché?”.
“Abbiamo bisogno di un professionista meno, come dire, si, forse meno preparato professionalmente. Più giovane. Con questo senza dire che tu sia…. Insomma. No di certo.”.
Mi allontano dall’ufficio con la sensazione di essere sceso bruscamente da un treno in corsa.
Non riesco ancora a farmene una ragione. Ho raggiunto dei discreti risultati a lavoro e nessuno si era mai lamentato di me prima d’ora. Deve esserci stato un qualche complotto interno, di cui non mi sono mai reso conto. Forse la segretaria, Angela. No, credo si chiami Anna. Lei sicuramente ha a che fare con questa storia. Domani l’aspetto sotto l’ufficio. All’uscita la blocco e le chiedo spiegazioni. Forse è per la richiesta di quel cliente rimasta sulla mia scrivania per mesi.
Non riesco a crederci.
“Carlo, pronto. Carlo, mi hanno mandato via dall’ufficio. Non ci credo ancora. No, nulla di così eclatante. Semplicemente non faccio più al caso loro”. “Si, si. Va bene. A dopo, allora. Chiamami, ok?”.
Carlo non mi chiama in serata. Neanche il giorno dopo. Non risponde al telefono.
Chiamo sua madre che mi conferma che è in casa. Me lo passa. Una voce bassa risponde dall’altra parte.
Quasi non sento ciò che dice. “Cosa?”. “Carlo! Chi è che…”.
Carlo abbassa il ricevitore con un tonfo sordo.
Non è possibile.
La ragazza di Carlo è stata scippata. Cadendo dalla bici, ha sentito una grossa fitta al basso ventre. Ha fatto dei controlli in ospedale. Era incinta.
Carlo è distrutto.
Mi sento male. Mi si annebbia la vista.
Torno a casa e passando mi fermo da Lino. Prova ad anticiparmi e apre lo sportello con le bottiglie di acqua, ma in un soffio gli chiedo un pacco di Pall Mall. Rosse.
Mi porge il pacchetto mentre mi scruta da dietro le lenti con gli occhi azzurri inumiditi, velati per l’avanzare dell’età. I baffi si piegano un po’ in un sorriso amichevole e disponibile.
Io non sono in vena di chiacchiere. Non stasera. Mormoro un buonasera veloce e lascio il locale prima che scenda il buio.
Non mi sono reso conto di aver girovagato per ore dopo la telefonata con Carlo. Ho camminato lungo il fiume che attraversa placidamente la città: Firenze si è svuotata in questi giorni di fine giugno. Nei weekend file di macchine invadono i viali per uscire dalla città.
Arrivo a casa e trovo Ines seduta sul divano, con il suo libro sulle gambe. Si gira e mi sorride. Gli occhi grandi le si illuminano.
Mi chiudo in camera per un po’. Ho molte cose da pensare. Tante questioni su cui riflettere. Ho tanto tempo, d’altronde domani è sabato. In fondo non ho più un lavoro e sono libero anche lunedì.
Mi viene in mente quando da bambino mi sedevo sulle gambe di mio nonno. Mangiavo con lui la sua minestra. In realtà, mangiavo tutta la sua minestra e la nonna era costretta a mettere di nuovo il latte sul fuoco con il pane a mollo.
Ora mia nonna vive da sola e anche noi nipoti andiamo a trovarla pochissimo.
Il sabato passa velocemente e apro gli occhi che è già pomeriggio inoltrato. Sento delle voci provenire dalla cucina. La madre di Ines è arrivata. Una donna sulla cinquantina, di bell’aspetto, molto signorile. Mi porge il caffé. Ines è rannicchiata sul divano ed è molto pensierosa.
Torno in camera mia per lasciare madre e figlia libere di parlare. Mi addormento di nuovo, forse per non pensare.
In una sorta di stato catatonico, mi risveglio che è già sera inoltrata.
Non so più chi sono, cosa faccio in una città che non mi appartiene e a cui non appartengo. Non ho nessuno su cui contare e nessuno che conti su di me.
Intravedo Ines nella sua stanza. È china sul tavolo. Per un attimo penso di non disturbarla, ma non vedo più sua madre.
Ines mi guarda un po’ sorpresa. Mi sembra stanca, le occhiaie di chi non dorme da tempo.
Le chiedo dove sia sua madre.
“E’ partita”.
Mi fissa per un lungo attimo e mi sembra di perdermi nei suoi occhi. Non riesco a cogliere quella nuova luce, né il senso del vuoto che mi pervade.
Mi porge la foto di suo padre. Ora è un collage disordinato di minuscoli pezzettini attaccati tra loro con il nastro adesivo. Le chiedo perché l’abbia strappata.
Mi guarda ancora a lungo. Poi sospira e mi racconta che suo padre non era un architetto. Non era elegante, non era signorile. Suo padre, che non ha mai conosciuto, non ha mai vissuto con la mamma e non l’ha mai amata.
Non capisco ciò che dice.
“The man who gave me birth… He has met her on a street during the night. He…”. L’abbraccio forte. Mi chiedo perché ora. Perché a lei.
Perché a Carlo. Perché a me.
Non ho la forza di sopportare altro.

Più tardi scendo per una birra. Il bar di Lino è ancora aperto. Mi siedo. Sorseggio la mia birra con calma. Non ho fretta e Lino chiude molto tardi.
Mi chiedo come faccia a reggere tante ore in piedi alla sua età.
Scoppio in lacrime. Sgorgano copiosamente dai miei occhi.
Lino mi porge un fazzoletto bianco di stoffa e si siede accanto a me. Resta con me per un tempo interminabile. Non parla, non mi forza a farlo.
Inizio io. So di non potermi trattenere. Lino mi ascolta con pazienza per ore, di tanto in tanto mi porge il fazzoletto. Parlo a testa bassa. Provo un po’ di vergogna. Ricordo a me stesso di avere trentadue anni. Non posso piangere. Faccio per alzarmi ma Lino mi poggia il suo braccio scarno sulla mano. Ha gli occhi velati come di chi ha pianto.
Il mattino dopo passo da Lino. Dalla vetrata osservo Maria che accarezza il bancone con un panno umido.
Mentre entro nel bar, Lino alza lo sguardo e mi saluta con un ampio sorriso: le rughe gli incorniciano gli occhi come un girasole appena schiuso.

lunedì 17 dicembre 2007

"Il vento del ‘43" (Inedito di Marco Busetta)

A mio padre
Continuavano i bombardamenti, né potevano ragionevolmente finire se prima non fosse accaduto l’irreparabile. Sentiva questa convinzione tanto fisicamente da non poterla definire un distratto presentimento; né tanto meno il frutto di un’immaginazione pure ragionevolmente prostrata dai trenta giorni di cannoni inglesi. Erano i primi di giugno, e l’unica altra cosa chiara che sentiva era il voltastomaco per il solo alimento che riusciva a reperire con facilità: chili di uva passa, nient’altro, che presto gli avrebbero cariato i denti. La portaerei del Mediterraneo moriva di fame, o almeno così era per lui. D’altro da mangiare era difficile trovarlo: qualcuno diceva che le bombe pescavano bene, nel porto, e che c’era solo da scendere a raccogliere pesci stecchiti sulle banchine; ma la verità era che sembrava che nessuno credesse davvero che la disgrazia sarebbe finita, magari di lì a qualche giorno, e bisognasse pensare invece al dopo, a continuare a curare la terra. Facevano schifo quei divertimenti a festeggiare la morte, non si accorgevano che quei pesci potevano essere loro, anche domani, anche la sera stessa: un disgusto peggio dell’uva passa gli saliva con un conato. Nessuno voleva accudire quella terra, nessuno voleva volgersi a porle un disperato omaggio. C’era chi raccontava ancora che tanto in fondo agli hangar c’erano provviste per anni. Nessuno voleva dedicarsi a riprendere a grattarla, a solleticarla, a ferirla quella terra perché rimarginasse ogni cosa con la sua polvere buona, con la sua polvere sana.

Si teneva in piedi appoggiato a un muro davanti la casa e si chiedeva se avrebbe mai ripreso a far pascolare la capra. Ora la teneva chiusa nel giardino dove era piantato il limone, costruito in pietra nera alla maniera araba, visto che la stalla era occupata. Veniva a dormirci un poveraccio. Portava da mangiare la sera e al mattino, quello che trovava, in genere uva passa, pane, fieno, a quello e alla capra, anche se non gli pareva cristiano che mangiassero insieme. Poteva stare, nessuno l’avrebbe cacciato, ma l’importante era che non si cenasse alla stessa tavola. L’aveva sentito alzarsi al mattino col buio, e rientrare a notte già fatta. Non parlava quasi mai, si limitava a ringraziare, una o due volte, se s’incontravano. Andava in giro, non si capiva per cosa, dicevano che era amico dei tedeschi. Ogni tanto rientrava con qualcosa di involto in uno straccio, ma cercava di tenerlo nascosto. Forse una mezza stecca di sigaretta o una pistola o del pane. Si dicevano tante cose, che gli italiani si sarebbero arresi, che molti volevano farlo subito, ma c’erano due o tre ufficiali che facevano i duri. La capretta la faceva uscire quando poteva, si vedeva che era nervosa a star chiusa lì dentro. Quella povera bestia non poteva stare tutto il giorno in galera, sarebbe morta, ma di farla pascolare libera non gli sembrava proprio il caso. Quando era fuori c’era il rischio che qualcuno la rubasse, con la fame che c’era. Anche il morto di fame che ospitavano, poteva mangiarla, così, a morsi. Cercava quando poteva di scendere al porto, per cercare pane e pasta, ma era diventato molto prudente. Attraversando il paese i piedi sembrava soffrissero di una dolenzia nuova, che niente aveva a che fare con le suole di cartone bucate e le pezze di stoffa ai piedi. Il paese era in buona parte macerie, il castello era un mezzo gigante ottuso, illeso, ma che sembrava avesse conosciuto un grande spavento; gli pareva di sentirlo lamentarsi, con un mugugno sordo. Barcollando sentiva per le strade la debolezza, l’inappetenza verso ogni resistenza concreta; i P-38 seguitavano le incursioni, la notte ogni tre ore. Si sentiva l’antiaerea che sputava molliche, infine le esplosioni a grappolo. E dalla terra pareva salire, attraverso un dolore nuovo, mai provato prima, tutta quella tragedia. La sentiva proprio camminandoci in mezzo. Per fortuna ci sarebbe stato l’onore delle armi, almeno quello. Si diceva anche che qualcuno quegli ufficiali irriducibili presto o tardi li avrebbe fatti secchi. Doveva essere il fischio degli aerei, doveva essere la puzza di fame a far cedere la terra. I piedi sentivano tutto il dolore della terra offesa. Ci sarebbe stato da tirargli addosso con le fionde a quei mostri nel cielo. E sputare addosso a chi non ammetteva di causare solo il prolungarsi della tragedia.
Erano saliti nella casa di campagna, a Gelfiser, per stare un poco più tranquilli, ma questo non aveva mutato la sostanza delle cose. Era l’aria acre di bombe che appestava l’isola intera fino a chilometri di mare intorno. Il mare doveva essere deserto. Il vento capriccioso di libeccio pure lui incapace di un soffio opportuno non faceva che spalmare il fetore in ogni cavo. Gli hangar innanzitutto per i soldati. Lì si stava sicuri, certamente. Si diceva che lì dentro le bombe non ci potevano in alcun modo. Ma c’era ancora meno aria. L’aria girava e rigirava, sempre più sporca. Ci sarebbero voluti anni per ripulire, anni di vento, di piogge, di respiri di gente nuova, che venisse in pace, di nuove esplosioni magari, dei fuochi d’artificio portati da Marsala. Chiudendo gli occhi percepiva il desiderio più osceno: fare tabula rasa di tutto, delle case, degli animali, portare il deserto. I cannoneggiamenti di sostegno sembrava volessero spezzare il sale della terra, come se l’inferno calato dal cielo non servisse abbastanza a consumare lo scempio. Chi aveva cominciato? Nessun lavoro dell’uomo, per nessun tempo, avrebbe mai potuto rimediare a tanto; e l’angoscia per i fossi nelle strade temeva dovesse annientarlo da un momento all’altro. Forse avesse eruttato il vulcano come non succedeva da millenni, forse solo così si sarebbe potuta cancellare quella catena di oltraggi. Il pensiero andava al cono otturato e pieno d’acqua, specchio di dee ora in vacanza altrove, forse in America: una possibilità di redenzione che almeno fosse della natura, autentica e legittima, doveva arrivare. Quello si, avrebbe potuto. Una pioggia di lapilli dal basso contro fortezze volanti, le avrebbe colpite, sciolte, risucchiate come nessuna antiaerea avrebbe saputo. Ma l’immagine muta, persino svogliata di quel lago quieto e anzi pesante per la poca acqua, dissolveva in un momento la speranza. Una mattina tardi, per caso dietro un terrazzamento abbandonato proprio lungo la strada di polvere grigia e verde che girava per le cùddie attorno al lago, con la terra smossa da qualche animale affamato e a quell’ora già morto, da dietro un muro di pietra venne una figura. Benché i contorni fossero incerti e l’apparizione fosse durata un momento appena, immediatamente capì cosa voleva dire: erano quelli i modi per apprendere che il 10 di giugno del 1943, nell’ultimo giorno di bombardamenti, suo padre sarebbe morto schiacciato da un tetto crollato per un’esplosione più inutile delle altre. Solo quel giorno, compiuto quell’ultimo assassinio secondo regole di sacrifici mai comprese, l’attacco all’avamposto d’Europa sarebbe potuto banalmente terminare, prova generale di un D-day più degno.

In quel momento preciso si determinò ogni sciagura: la fine del cataclisma e l’inizio dell’invasione – camuffata per festosa, blaterata per liberazione - gli fece perdere più che la pazienza, addirittura il senso stesso della vita, perfino l’onestà nei suoi stessi riguardi. Al caos che distrugge era seguito il disordine vandalico: c’erano uomini che sembrava potessero fare quel che volevano e conquistare ogni terra senza neppure averla vista fino ad allora da meno di trecento metri. Come si possa passare dalla guerra alla pace, dal ghigno d’odio all’abbraccio. Come si pretenda di liberare radendo al suolo, rendendo orfani i protetti del giorno seguente. E come si possa davvero permettersi un sorriso, l’inganno di un’impalcatura di sincerità. Quella figura dietro al muro portava galloni, stelle scippate al cielo certamente nel corso di uno dei raid in picchiata. Ma erano gradi scuri, dello stesso colore della veste, e non poté dirne con certezza il grado né l’armata di appartenenza. Sapeva di per certo solo che erano strani, stranieri.
Da allora per rabbia avrebbe cominciato a considerare le scene altrui come allestimenti di umanità incomprensibili, i gesti e l’avvicendarsi sarebbero divenute cose perfettamente fraintendibili: una mano alzata in segno di saluto poteva discorrere come un segnale di stop, di arresto necessario, urgente persino. Una mano aperta che doveva in origine chiarire buoni propositi s’era da poco archiviata come il preciso segnale di uno spettro epocale, da raccontare ai figli se solo fosse stata data la grazia di sopravvivere. Dietro un riso, magari mezzo schermato, o una mietitura di grano ci poteva benissimo stare tutto il dolore di questo mondo, e così per un baffo, un’espressione, ogni testa di morto in stiffelius. E i liberatori rivelarsi più cattivi della polizia che torturava i ladruncoli, colle grida dei poveri cristi che spaccavano i muri. Altre fessure, altre fessure ovunque. La scuola privata di antifascisti in esilio si sarebbe dissolta in una sporazione per gli atenei di tutta Italia. Il professore di latino e greco avrebbe insegnato in caput mundi. La sua isola a forma di uovo sarebbe stata dimenticata e lui accatenato alla terra col vaiolo aviario, butterata da quegli uccellacci di ferro. Chiunque fosse passato di lì, per un verso o per l’altro, aveva lasciato buchi e squarci ovunque. Altri sarebbero partiti, avrebbero trovato moglie straniera, avrebbero conquistato terre più comode da rivoltare, più morbide e grasse di quella, meno contaminate di polvere omicida. Aveva diritto a scappar via anche lui, su questo non potevano esserci dubbi.
Ma la paura che del bene si compisse - magari per sbaglio, per una polvere maligna penetrata attraverso una crepa nella casa sforacchiata dagli angloamericani - che questa luce rischiarasse quella terra, che persino quella casa moncata dall’assassinio del padre, assassinio atroce perché immondamente inutile, inavvertitamente e senza che lui ne godesse per l’assenza decisa in fretta e male, che quella casa potesse ritrovare una sorte; che tutto ciò avvenisse quindi rinnegando lui, scandendone anzi la mancanza e nonostante l’esserci perpetrato per tutto il male di quegli anni, il dolore inarginabile di quegli ultimi giorni, questa paura spugnosa, ineguale e fitta di umori ristagnati, lo costringeva all’immobilità. E negli altri, nei fantocci attorno che pure scemi si dimenavano fingendo di non sapere, non trovava pareri né vaticini e neppure segnali più scadenti. A chi chiedere tracce?

Ci voleva della buona malta e una cazzuola. Tappare i buchi anzitutto, poi, forse, partire. Rimanere sembrava un obbligo naturale, una condizione ineluttabile, una disposizione che rispettasse i vuoti e i pieni dovuti. Ma in effetti non si era mai spesa una parola parlata né a favore né contro quest’ordine. Quelli in divisa con scarponi robusti mai visti, lui ancora con le pezze ai piedi per calze. Quelli ridevano, offrivano cioccolata dolciastra, insegnavano a tutti a fumare. C’era da ricostruire, da prendere le vanghe e le zappe, da accettare il lavoro con gli americani, c’era la possibilità di diventare boss, il capo del magazzino delle derrate. E poi aspettare che se ne tornassero al loro paese, e approfittare di quello che avrebbero lasciato: marmellata, burro di arachidi, fagioli in scatola, piselli in scatola, tutto dentro le scatole, la carne persino, buona. le patate, dolci. Lui conosceva già qualche parola di inglese, imparava presto: una decina di uomini erano saliti, avevano preso possesso della loro abitazione di campagna, praticamente l’avevano requisita; gli avevano offerto del tè con un goccio di latte. of milk. La madre aveva rifiutato emettendo un mugugno e alzando le braccia. Erano stati gentili, con quelle facce chiare: sembrava brava gente, gente educata gli Inglesi. Forse poteva andarsene con loro. A Londra, forse, o a Boston. Gli Americani sembravano tutti portoricani, c’erano anche oriundi italiani, della Calabria specialmente, e napoletani. Ma per quanto gentili avevano rubato comunque la casa e li avevano ricacciati tra le macerie del paese. Ordini del comando, chi ci credeva. L’edificio di due piani in paese non era stata colpito direttamente, solo per un miracolo, ma molte schegge erano penetrate sui muri: forse c’era da temere che una notte crollasse tutto. E senza che una sirena li avvertisse. Buchi, sempre buchi, ovunque brecce nella materia, anche quella più lieve che sentiva dentro. Una famiglia di vicini più sfortunati aveva chiesto di poter stare di sotto, di dormire in cucina, per carità di dio, finché non avessero ricomposto in fretta le loro macerie. S’erano portati un materasso di lana con uno strappo e riuscivano a russare. Tornava alla casa, erano tornati al paese. C’era una mezza epidemia di enterocolite. In casa non c’era rimasto niente, non c’era neppure la possibilità di tentare di ricostruire qualcosa. La normalità, ciò che era stato prima, prima di tutto, era talmente rimasta distorta da non potervi che rinunciare del tutto. La vita gli sembrò una cosa fiaccata, una canna spezzata proprio sul più bello, che adesso doveva ripiegarsi a leccare la terra. La madre diceva che il posto di lavoro cogli americani era buono, avevano fame, doveva approfittare: lui aveva studiato, aveva fatto in tempo a prendere la licenza classica; era giusto, doveva: glielo ripeteva tutto il santo giorno, mentre riprendeva a impastare un poco di pane, finalmente, dopo forse due mesi. C’era farina in paese, a razioni per tutti. La licenza in quattro anni, col salto della quinta ginnasio, non era cosa da tutti. Doveva dirglielo, certamente. Bocca che non parla si chiama cucuzza. Invece sognava ancora di andarsene, di arruolarsi con gli inglesi, di rubare una divisa qualsiasi e camuffarsi. Ièsser, ièsser, che ci voleva. Al suo posto non doveva restare che la sua forma vaga, il suo peso scarso, il movimento di umori ormai troppo noto per valere la pena di continuare a viverlo: avrebbe preferito fosse quello a decidere per lui, il suo fantasma. Lui pregava di andare, ma madre vedova, sorella affamata, casa distrutta: come poteva? Del negozio non era rimasto più niente. Le tremila lire in banca non gliele avrebbe date nessuno. Forse erano servite già. O forse la banca non esisteva neanche più. Un buco al suo posto. Certo prendere una barca fino a Marsala, poi magari cercare Palermo, da lì di nuovo il mare. Proiettando la sua fuga, il ricordo in découpage magari nel porto di Marsiglia, mentre cercava di fumare su un molo, l’avrebbe quello solo ossessionato abbastanza da preferire tornare alle notti di bombardamento, colle sirene che scavavano le vene, ma almeno sentirsi colla coscienza a posto: due o tre tratti, qualche espressione tipica possibilmente deformata secondo le convenzioni, eccetera: sarebbe bastato questo purché incorniciato nei tratti della madre già quasi canuta, sarebbe bastato un suo cenno per sciupare ogni volontà. Questo bastava per desistere. Per svuotarlo immediatamente. Per farlo sentire illegittimo alla terra oltre il mare. Un’altra creatura - più bella, più capace, più impegnativa o semplicemente più ingombrante - Mastroianni avrebbe detto qualche anno più tardi, a Roma, per un posto in banca, seduto al cinematografo - avrebbe infranto l’equilibrio presunto e generato inattesi collassamenti nella materia familiare. Non era capace di permettersi un capriccio. Poteva lasciare la sorella in sua vece, lei avrebbe potuto lavorare per la madre, fare andare avanti la casa. Non era grande abbastanza però, avrebbe dovuto rimandare. Andava bene così, che ci fosse lei, particella domestica, assai poco indagata ma rispettosa e obbligata per tributo genetico: sarebbe stata più brava persino di lui; ma solo tra un paio d’anni, forse tre. Si fosse fidanzata ci sarebbe stato un uomo. Era leggera quella sorellina, forse vuota, ma il fatto di vederla così simile in viso gli pareva un conforto, uno dei pochi in mezzo a tante macerie. Il figlio come replicazione, come maschera o specchio. Il figlio come fantoccio minuscolo e inappetente. Ne servivano due per forza a quella casa? La prole è una scatola viva entro cui decidere la propria rigenerazione, ma a volontà: questo o quella. Altrimenti la prole come vicolo morto, foglia secca non per colore, per forma, per apparente vigore, ma per mancanza di autentica linfa, mancanza manifesta a chi della linfa è persuaso di essere autentica fonte. E pur sempre foglia di un albero, simile all’intera faccenda vegetale. Si, lui era una foglia secca, che si sarebbe seccata presto e che era meglio si facesse trascinare dalla prima boccata di vento buona verso Marsala.

sabato 15 dicembre 2007

"Etyb" (di Mario Govoni)

Etyb si sentiva fuori fase ... forse era stato colpito da quell'epidemia della quale aveva, vagamente, sentito parlare. Era un po' che provava quella sensazione, come se il suo codice fosse stato scritto alla rinfusa o, meglio, alla rovescia. Aveva quasi la sensazione di essere una lampadina spenta con l'interruttore aperto, oppure una lampadina accesa con l'interruttore chiuso. Certi giorni, poi, era come l'ago di una bussola che, anziché puntare al nord, indicasse tutti gli altri punti cardinali ... strana sensazione veramente.

Il peggio, poi, era che gli erano venute all'orecchio voci strane: pareva che, lì vicino, ci fossero altri tipi “strani” come lui e che i “normali” e gli “strani” lottassero tra loro, lasciando alle loro spalle terra bruciata. Fortunatamente, però, Etyb si sentiva al sicuro e pensava di non correre rischi con i “normali” ... in fondo lui si faceva gli affari suoi e, pur nella sua stranezza, non dava fastidio a nessuno.
Il tempo passava ma le cose, anziché andare meglio, sembravano, impercettibilmente ma inesorabilmente, peggiorare ... era come se il disco della vita ruotasse rallentato da un mare di melassa.
Etyb era perplesso, mai gli era capitata una cosa simile ... prima le sue personali sensazioni, poi la percezione del mondo circostante ... tutto gli sembrava, stranamente, fuori posto. Non aveva esperienze in proposito, non aveva idee, non sapeva cosa avrebbe potuto riservargli il futuro, ma era speranzoso. Sì, indubbiamente, tutto sarebbe tornato a posto, sarebbero cessati i disordini, “strani” e “normali” avrebbero vissuto in pace fianco a fianco, la vita avrebbe ripreso il suo solito, monotono, andamento, con suo enorme sollievo.
Nel frattempo, in un altrove del quale Etyb ignorava anche l'esistenza, l'occhio di dio si posò su un messaggio di avvertimento:
“Elimina Partizione Primaria
Tutti i dati sul volume andranno perduti.
Continuare?
Sì - No”
Dopo un tempo che a Etyb sarebbe sembrato eterno, dio sembrò prendere una decisione. Con un movimento lentissimo, quasi irritante, la mano di dio si mosse e spostò il mouse. Il movimento dal tavolo di dio si portò sul monitor e il cursore si avvicinò inesorabilmente al “Sì”.
Ancora un momento di impercettibile ripensamento, poi la mano di dio, anzi il suo dito indice, con un colpetto sul tasto sinistro del mouse, scatenò il giudizio universale.
In quello stesso, preciso istante sul mondo di Etyb si accese il fuoco di mille fulmini, la vampa di un calore elettromagnetico sembrò sciogliere tutto, aratri terribili solcarono il disco della vita e, in un silenzio irreale, tutti, gli “strani” e i “normali”, scomparvero, trasformati in una sorta di informe marmellata.
In quell'unico istante Etyb capì che la sua vita, in quel ciclo, era finita, e quella consapevolezza si fuse col nulla.
La mano di dio spostò nuovamente il mouse ... una finestra si chiuse.

venerdì 14 dicembre 2007

Un grazie ...

A Luana De Santis, mia allieva e amica, che ha realizzato il logo di questo blog.
Mi scuso con lei se, per una dimenticanza (legata forse alla vecchiaia avanzante) non ho provveduto prima a renderle l'onore che merita.

giovedì 13 dicembre 2007

"Tutte le luci del mondo" (inedito di Daniela Veneri)

1.
Non riesco a trovare una posizione comoda. Ho freddo, e non riesco a riscaldarmi nemmeno con questo sole. Le ossa mi stanno marcendo, questo dolore perenne, puntuale, pungente mi fa contorcere la gamba come fosse un’anguilla. La testa, con il gelo e l’umidità che preme per ore, si scatena in pensieri strani, che si incanalano in dei tunnel di ricordi ricomposti in un filmato inverosimile. Non sento più le dita dei piedi, credo che il mignolo destro sia in cancrena. La tosse mi percuote il corpo come una scossa. Mi viene quasi da vomitare. Le coperte non trattengono questo dicembre gelido lontano dalla terra e da me. Ho fame. Vorrei un cappuccino caldo, con una di quelle focaccine del bar del mio paese, soffici e piene di crema. Le piaghe all’inguine mi bruciano. Sono settimane che non mi lavo. La mia Sara, la vedo, mentre corre tra le giostrine, mentre corre balzelloni e grida “Papà papà andiamo sul Bruco Mela? Ci andiamo? Ti prego ti prego ti prego…”. L’ultima volta che ho visto i suoi occhi neri e la sua pelle rosa e trasparente sotto le mie mani. L’ultima volta che l’ho stretta e le ho parlato. Gli ultimi 20 euro spesi tra caramelle, la giostra dei cavalli e le patatine fritte. L’ultima volta che sono stato nel loro mondo, nel mondo delle luci.

2.
“Quando quando? Quando la finirai di fare il bambino e crescere Daniel? Siamo ancora in ritardo sull’affitto, mi servono i soldi per la spesa. Non si può andare avanti così, è chiaro? Devi trovare un modo per trovare i soldi…fatti dare l’aumento o cerca un altro lavoro. Sono mesi che facciamo la fame…e perché? Perché ti sei fidato di quello stronzo di tuo cugino a comprare le azioni della Parmalat! Senza chiedermi niente. Io Daniel non ce la faccio più, non so più perché stiamo ancora insieme”. Io ti ho guardavo assente, non avevo colto la disperazione che ti aveva invasa e la depressione nella tua voce. “Non dici niente? Non fai niente per rassicurarmi?”. Sara si era affacciata dalla cameretta. L’ ho vista con la coda dell’occhio e le son andato incontro. Ho sempre odiato che lei assistesse ai nostri litigi. “Cristina stai esagerando, non siamo sul lastrico, dobbiamo solo rimetterci in sesto”. “Rimetterci in sesto?! Non abbiamo un euro Daniel, 3 mesi di debito col padrone, le bollette scadute da un mese, i tuoi che non ci danno una mano e io non posso lasciare Sara da nessuno, né cercarmi un lavoro…Ha ragione mio padre, la miglior cosa sarebbe che io tornassi a casa sua con Sara”. “Tuo padre? Perché non mi dà quei 3 mila che gli ho dato 4 anni fa eh? Invece che incita sua figlia a lasciare il marito. Tu non te ne vai da nessuna parte capito? Nessuna va via da qua. Siamo una famiglia!”. “Ah bella famiglia! Siamo quasi in mezzo ad una strada perché sei un uomo senza coglioni. Ti hanno preso per il naso tutti, tutti quanti e non ti sei mai fatto valere. Sei un perdente, un fallito e io non ci affondo con te”. Sara mi stringeva forte il collo, il viso nascosto nella mia spalla. “Non avere paura piccolina mia, non è niente dai…”. “Ma la mamma è arrabbiata, perché?”. “No, è solo un po’ stanca, sai come quando tu fai i capricci dopo cena perché vorresti ancora giocare, ma crolli dal sonno? Uguale la mamma…”. “Ma vado dal nonno domani?”. “No, domani no, un altro giorno. Ora andiamo a lavarci le manine”. Mi davi le spalle mentre pelavi le patate. “Cri, lo so, non è un momento bello…ma vedrai cambierà”. Ti sei fermata, forse volevi girarti per dirmi qualcosa, forse altri improperi. Invece hai ripreso il tuo lavoro e hai tirato un lunghissimo respiro. E mentre stavo andando verso il bagno a controllare Sara, la tua voce mi ha seguito. “Daniel, io non ti amo più”.

3.
I suoi capelli sottili e profumati non li ho scordati. Si può vivere senza una poltrona, senza cena e pranzo sicuri, senza televisione, macchina, senza vestiti puliti, senza telefono, senza un letto. Ma un uomo che perde tutto, perde se stesso. Il mondo scorre attraverso i discorsi di chi ti passa accanto. Il tempo,quello, devi impegnarlo e non è semplice. Io spesso vado vicino alle scuole o ai giardinetti. Quando c’è stato il circo mi sono fatto anche un paio di chilometri a piedi. Non ricordo quando, ma tutto ha iniziato a diventare ombra, sempre più buio. Sono uno di quelli, mi hanno detto, che sulla strada c’è finito per sfiga. Io avevo una casa, una moglie e Sara. Di lei ricordo tutto, il suo rosa, il suo castano, anche se i colori sono spenti, come se tutto fosse avvenuto sempre di sera. Il mondo delle luci, il mondo della felicità qui dicono che è tutta finzione, un sogno a noi precluso. Che strano…mi ricordo anche quando andavo a scuola, mi ricordo l’esame di maturità e mia madre ed io mentre passeggiavamo allegri ad Alberobello.

4.
“Papà papà papà…”. “Cristina ti prego fermati, lasciami almeno salutare la bambina”. Non capivo, non riuscivo a focalizzare. La mattina ero andato a fare un colloquio. Lo sapevo che sarebbe andato bene, dopo tanti no, il si doveva arrivare. “Inizio tra una settimana, da Edelponte, quello degli automatismi, ricordi? Gli serve un elettricista. E mi ha detto che posso iniziare subito…Cri, hai sentito?”. “Non me ne frega più nulla. Vado da mio padre”. La tua schiena scendeva veloce giù dalle scale. E Sara piangeva mentre la tiravi per un braccio. “Cri ma hai sentito? Fermati cazzo!”. Ti sei fermata. Hai detto a Sara di scendere e di aspettarla in macchina del nonno. Lei ha desistito e mi si è attacca alla gamba. “Papà …non…voglio…andare via”. Era scossa dai singhiozzi, ho fatto per abbracciarla ma tu me la hai strappa e le hai urlato di scendere, “Vai giù subito Sara!”. Poi ti sei voltata, e mi hai fissato con occhi che non avevo mai visto. Ho capito che facevi sul serio. Ho capito che te ne saresti andata via per sempre, con Sara, che non la avrei rivista più, che non te ne fregava nulla del lavoro nuovo, che non volevi più stare con me...che sarei rimasto solo. “Io non so come farai a vivere e non mi interessa. Spero che il nuovo lavoro ti vada bene, perché non hai più nulla Daniel, domani hai lo sfratto forzato. Sai dove trovarci. Io non mi aspetto né gli alimenti né altro. Se vuoi vedere Sara dovrai stare alle regole”. Mi hai passato una busta che non ho preso. L’hai fatta cadere ai miei piedi. Mi hai guardato con sdegno. Sei scesa di qualche gradino. Poi sei ritornata indietro. “Una cosa sola voglio sapere: perché hai buttato via tutto? Perché non mi hai mai, mai, ascoltata? Perché?”. Io son stato zitto. Non sapevo cosa dirti. Io ho cercato di non rovinare mai nulla. Avevi gli occhi gonfi. Mi hai dato ancora le spalle e sei corsa via veloce. Mi sono abbassato, ho raccolto la busta e ho letto l’intestazione: Avv. Luigi Zanni, Istanza di separazione Mannini. Mi sono catapultato giù, sono arrivato sul marciapiede e ho visto una Fiat Marea che se ne stava andando. Mi sono affiancato. Guidava Pietro, tuo padre, e dietro Sara si divincolava sul seggiolino chiamandomi. Tu, immobile, non mi guardavi. “Aspetta, aspetta…Sara ti voglio bene, il papà ti vuole bene. Cristina, fermati ti prego, fermati!”. La Marea ha accelerato e io son inciampato. Una fitta alla caviglia come lama nella carne. Piegato sulle ginocchia, inspiravo profondamente. La Marea aveva girato a destra. Non la vedevo più. Vi aveva portate via, lontane. A Lugano.

5.
Ho imparato presto le regole della strada: si dorme poco, perché c’è sempre qualcuno che ruba quel poco che hai. Devi fissarti più posti per dormire e mangiare. Mai dormire da solo in luoghi isolati. Fatti dei simpatizzanti tra panettieri, salumieri e baristi, può esserci qualche boccone per te. Lavati alle fontanelle di mattina presto o la sera d’estate e di inverno nei bagni pubblici. Le scarpe sono come le gomme per una macchina: se lisce le devi cambiare e non è semplice trovare quelle giuste ai vari banchi della Caritas. Ammalati il meno che puoi: se ti becchi la polmonite sei già morto. Regola più importante: diventare insensibili alle occhiate della gente, al loro giudizio, al loro disprezzo, alla loro indifferenza. Guardano me e mi odiano perché la loro paura è più fondata di quanto credono: è più semplice diventare come me, che ricco come Briatore.

6.
La prima notte in strada. La notte che ha rubato la mia vita di prima non la scorderò mai più. Venti centesimi, tutto ciò rimasto al ritorno da Lugano. I soldi della misera liquidazione da Edelponti spesi per vedere Sara, dopo 5 mesi. Non avevo più lavoro, né macchina. Quando sono sceso dal treno erano le undici circa di sera. Esausto, sudato, affamato. Non avevo mai pensato a dove sarei andato, né a come ci sarei arrivato. Sapevo che la stazione non era posto sicuro. Mi incamminai in direzione centro storico. Dopo mezz’ora trovai un piccolo spiazzo con un paio di panchine. Ero davanti a “Santa Maria della Carità”, una chiesetta stile gotico. La notte era calda per metà maggio. Con lo zaino sotto la testa mi addormentai steso sulla panchina, con Sara nei miei sogni, la sua risata come sottofondo. Poi d’improvviso una botta alla testa, un dolore acuto, qualcuno che mi buttava a terra e mi dava calci allo stomaco, alla faccia e ancora allo stomaco. Non capivo, non vedevo. Non riuscivo a respirare. Cercavo di coprirmi la testa. Qualcuno altro mi tirò per i piedi, quello dei calci si fermò. Allora alzai la testa, aprii un occhio, e vidi 3 persone con le mani dentro il mio zaino e tutta la mia roba per terra. Setacciavano, prendevano e calciavano via. Cercai di alzarmi per scappare. Riuscii a girarmi di schiena e a trascinarmi fin sotto la panchina. Ma qualcuno mi mollò un paio di calci nei reni, mi ritirò indietro e mi diede un pugno in faccia. Buio e silenzio. Fu Don Franco che mi trovò la mattina dopo, che chiamò l’ambulanza e che mi assistette nell’attesa. Ero un mostro di sangue rappreso in faccia, la bocca tumefatta, almeno tre costole rotte. Mi fecero un sacco di domande a cui non seppi rispondere. “Dove abita? Come si chiama? Ha parenti? Ha visto in faccia i suoi aggressori?”. Mi caricarono in autoambulanza, mi portarono al pronto soccorso e mi medicarono. “Dovresti stare in osservazione almeno un paio di giorni” mi dissero. Un carabiniere mi si avvicinò. “Signor Mannini, come sta?”. “Meglio…”. “Senta…abbiamo controllato la sua situazione. Lei non ha casa, né lavoro…La sua famiglia?”. “Lugano…”. “Ieri sera, lei stava dormendo sulla panchina?”. “Si”. Respiro. Il carabiniere mi fissò. “Signor Mannini, appena può dovrebbe passare per la questura”. Ho aspettato la mattina, e dopo il giro delle sei, mi sono vestito e sono uscito di nascosto. Non avevo più niente. Nemmeno le scarpe.

7.
Stanno aprendo i cancelli. Il custode mi vede, si avvicina a passetti. Non sa cosa fare. “Ehi tu…va via da qua…vattene sennò chiamo la polizia”. Io sto fermo, non ho nessuna intenzione di muovermi. L’uomo mi sputa addosso e se ne và: ha compiuto il suo dovere. La polmonite mi ha debilitato, non so quanto tempo camperò. Non voglio pensarci oggi. Saranno le 11 del mattino credo, forse qualcosa dopo. Devo sforzarmi per tirarmi su. Voglio entrare nel luna park e fare un giro. Oggi c’è un bel sole, giornata perfetta per le giostre. Mi trascino tra i quasi conati di tosse. Mi sistemo sulla panchina tra la casa degli spiriti e il Bruco Mela. Davanti a me, la giostra dei cavalli. Arrivano le prime mamme coi bambini, che tirano le maniche dei cappotti materni, tutti eccitati e sognanti. Si scelgono la postazione migliore come se quella fosse la loro, da sempre. Un tepore mi percorre il corpo. Sono stanco. Mi accoccolo sulla panchina. Qualche bambino mi sta indicando alla sua mamma, che gli dice di non guardare e segnare, e lo spinge avanti. La giostra dei cavalli inizia il suo primo giro. La musica è tutta allegria, mille ciondoli e ninnoli che suonano, le voci dei bambini che incitano i loro cavalli di legno ad andare più forte. E sento Sara, vedo Sara mentre gira e spinge il suo cavallo rosa e mentre grida: “Papà papà mi vedi? Vado fortissima, forte più della luce”. “Si che ti vedo amore mio, sei tu la mia luce, sei tutte le luci del mondo”.

mercoledì 12 dicembre 2007

"Il libro è una specie stravagante" (Beniamino Sidoti)

Il libro è una specie stravagante: da sempre data in via di estinzione, tende a riprodursi naturalmente, generando generi e figliando fogli. I libri si riproducono per lo più in tipografia, dove mediante tecniche di riproduzione a stampa, rendono carta bianca carta potenzialmente inutile. Malgrado questo, di solito, la carta stampata costa più della carta bianca. Il libro si riproduce solitamente in forma asessuata, per meiosi: quando noi abbiamo in mano un libro tendiamo a pensare a esso come a un individuo; niente di più sbagliato: esso è una piccola parte di una grande colonia, di un sistema vivente esteso. Ogni libro, inteso come "titolo", è quindi solo un elemento di una serie di copie identiche che escono contemporaneamente dal luogo di riproduzione per poi cercare il proprio spazio vitale, chiamato (senza troppa fantasia) "libreria". E' nella libreria che i titoli cercano di entrare in competizione con altri titoli. La competizione è spesso cruenta, dato che ogni libreria ha poco spazio per garantire la vita di tutte le singole razze di libro. Alcune librerie hanno organizzato degli spazi per proteggere i libri in via di estinzione, detti anche "reparti", in cui vengono fatti entrare solitamente pochi individui per volta, come accade nei parchi naturalistici. Alcuni di questi libri sono lì per anzianità (e a volte per questo vengono detti "saggi"), altri perché sono detti "di genere" o sono "per ragazzi". Come nella specie umana, infatti, le discriminazioni vengono effettuate per genere o per età. Quando i titoli rimangono troppo a lungo nella loro riserva, iniziano a sparire. Dapprima lasciano quello che è il posto più ambito dai libri, la vetrina; poi abbandonano anche lo scaffale e prima o poi sono destinati a quello che è l'oltretomba dei libri, un luogo terribile detto "macero", una specie di limbo in cui si dice i pensieri si fermino su se stessi, e le pagine girino in tondo. Nessuno, una volta destinato al macero, riesce a salvarsi. Raccontano alcune voci che certi libri, in effetti, riescano a sfuggire al loro destino, e a infilarsi in compiacenti librerie destinati ai fuggiaschi, e lì ricordano a tutti cosa aspetta loro; per questo vengono detti "reminders", coloro i quali ricordano. Altri aggiungono una "a", e dicono "remainders", probabilmente per esorcizzare la potenza del ricordo.

La maggior parte dei libri, invece, compete per una fetta di territorio che pare essere la migliore: esposta alla luce, al passaggio, in una parola alla fuga dalla libreria. I libri sanno infatti che non possono vivere per sempre in libreria, e cercano quindi una possibilità di lasciarla. Dato che non hanno gambe (tutti i libri, in senso tipografico, hanno un certo carattere e un corpo; ma nessuno possiede gambe. Alcuni possono essere libri alla mano, scritti a braccio, di prima mano, perfino scritti coi piedi; ma nessuno possiede gambe. Probabilmente per impedire loro la fuga), i libri devono affidarsi ad altri esseri, che chiameremo lettori (anche se qualcuno li preferisce chiamare "acquirenti"). I lettori sono una specie fragile, sensibile al rischio del macero, e cercano sempre di salvare dei libri dal loro destino; entrano nelle librerie come in un canile o in un orfanatrofio e si fanno irretire dall'aspetto più simpatico. I libri hanno elaborato diverse strategie di sopravvivenza, per cercare di attirare l'attenzione del lettore, per far cadere l'occhio su di sé e non su un altro. I libri che saranno in grado di sopravvivere potranno lasciare in eredità il proprio patrimonio genetico, e generare altri libri simili a questi, in modo che i lettori possano trovare in libreria i libri che più li attirano, sempre simili a se stessi. Esistono comunque fenomeni di mutazione genetica (o filogenetica) che consentono ogni tanto l'apparire di un libro diverso dai precedenti eppure di specie particolarmente resistente. Esistono anche, pare, dei tentativi di laboratorio: per creare libri più interessanti al lettore si cercano incroci fra ceppi di successo, generando individui ibridi e curiosi; tali libri, spesso veri scherzi di natura, hanno però finora avuto vita effimera, a dimostrazione che la riproduzione in vitro è sempre meno efficace della riproduzione in libro.
La natura, come sempre, non smette di sorprenderci con bizzarre e curiose forme di adattamento all'ambiente; in modo darwiniano, per esempio, accanto alle specie dominanti si generano specie parassite: se un libro, ad esempio, conquista spazi di esposizione in libreria (colonne di volumi accanto alle casse, piedistalli in vetrina e altre forme di sfoggio di potere, comuni fra i libri), subito nascono accanto ad esso libri "parassiti", che si propongono come commento o silloge, dizionario o guida. Il fenomeno, curioso, è stato ampiamente studiato: il libro parassita ha di solito vita breve ed effimera, ma può godere ciononostante di una vasta diffusione. Oltre ai libri parassita, esistono curiose forme di libri imitatori: titoli simili, copertine quasi uguali, parole ricorrenti, simili in questo alle forme di mimetismo delle farfalle o di alcune specie di pesci; i libri parassita nascondono spesso carni molto più insipide, e si rivelano assai difficili da liquidare una volta in mano del lettore. Le loro capacità di sopravvivenza devono essere alte, dato che affollano i remainder, cosa che evidentemente deve essere legata alla capacità di evitare il macero. Ancora diverso è il fenomeno della simbiosi: alcuni libri esistono solo grazie al rapporto instaurato con alcuni lettori particolari detti "autori" (vi è chi sostiene che gli "autori" siano un'altra specie, distinta e geneticamente differente dai "lettori". Non entriamo qui in questa questione, peraltro di raffinato interesse). Gli autori (singolare: autore, più raramente "autrice") si vedono in giro solo con una copia del proprio libro, e i libri riescono a uscire dalla libreria solo quando appare l'autore; vi è chi sostiene l'inesistenza dell'autore in assenza del proprio libro, ma anche ciò non è stato provato. Altri libri ancora producono strane tossine, che producono dipendenza nel lettore: non si spiega altrimenti l'accanimento di alcuni lettori nel prendere più e più volte libri particolarmente simili fra di loro, e nel cercare di diffondere il contagio prelevando copie per ogni conoscente e amico. A dimostrazione che tale fenomeno sia legato a qualche malattia è l'esplosione di questa diffusione in periodo invernale, in particolare intorno alle festività natalizie, quando come è noto massimo è il diffondersi delle influenze. Si segnalano anche strani fenomeni di gigantismo: libri particolarmente grossi (o, ancora meglio, suddivisi almeno in trilogie) possono occupare più spazio in libreria e generare strategie tribali di conquista del territorio; dove si vede infatti un volume della trilogia o della serie, compaiono solitamente anche i precedenti. Per altro, è comune anche il fenomeno inverso: la tendenza a rimpicciolirsi; per attirare il debole lettore, infatti, alcuni libri si fanno piccini, in modo da poter stare esposti ove altri non arrivano (accanto alle casse, appesi a un filo, dietro la testa del cassiere). Se in natura la dimensione è solitamente inversamente proporzionale alla diffusione della specie (vi sono al mondo più mosche che elefanti), questo fenomeno non trova corrispondenza nel libro. Gli studiosi ancora discutono sul motivo stravagante: la presenza contemporanea di un medesimo libro in forma minuscola e maiuscola non è stata ancora adeguatamente spiegata.
Ma innumerevoli sono le forme che assume il libro per cercare di uscire dalla libreria, contemporaneamente paradiso e limbo, giardino edenico da cui i libri sanno di dover sfuggire, pena il macero che li attende inesorabile. Esistono molti miti, raccontati nella misteriosa lingua dei libri, su cosa vi sia dopo l'abbandono della libreria. E altrettanti, se non di più, miti sulle origini cosmogoniche della specie del libro e del singolo libro. Purtroppo, permangono molti misteri sul modo in cui i libri nascano e sulla origine reale del libro: alcuni sostengono che dietro ogni libro vi sia un "autore" (anche quando questo non leghi col libro un rapporto simbiotico), altri che vi sia perfino un "editore" (figura mitica che si incarica di raccogliere gli autori per far loro produrre libri, pare). L'unica cosa che i libri sanno è che, se sono fortunati, nel loro futuro c'è un lettore.

lunedì 10 dicembre 2007

"La guerra di maggio" (inedito di Massimo Bolognino)

Kona pensava e ripensava ai piani studiati per tutta la notte. Questa volta non c'erano dubbi, era stato fatto tutto come si deve, il suo popolo era ad un passo dalla conquista di un pianeta ricco e così poco popolato da lasciare sicuramente quasi tutte le risorse nelle mani della razza superiore, la razza a cui anche lei apparteneva, un popolo di guerriere che non avevano mai avuto paura di nulla. E' bello essere a capo di un esercito così compatto, sai che se i tuoi piani sono corretti, se la tua strategia è giusta, la vittoria da speranza diventa certezza.
Se ... ogni tanto un dubbio assaliva Kona, possibile che quel mondo fosse così vicino, così ricco, così poco popolato ? Ripercorse mentalmente tutto quello che era accaduto negli ultimi giorni. Pochi giorni prima le sentinelle che erano di vedetta ai confini estremi del mondo avevano perso il contatto con Kina. Kina non era certo il meglio che la razza avesse prodotto, era talmente poco seria che doveva cercarsi il cibo da sola, visto che nessuna la voleva nel suo gruppo di ricerca. Anche per questo Kina era piccola, molto più piccola delle altre, ed era stupida, molto più stupida delle altre, ed era anche strana, molto più ... insomma Kina era Kina.
Malgrado queste sue stranezze comunque era pur sempre una Antica, una discendente diretta della Madre di Tutte, quindi era in contato telepatico con le sorelle che si trovavano ad una certa distanza. Ecco perchè anche se Kina era Kina partirono subito le ricerche.

Il mondo delle Antiche era vastissimo. Il sistema delle sentinelle, una ogni 100 lunghezze, faceva in modo che ogni sentinella fosse in contatto con altre otto, era un sistema elaborato nel corso del tempo e si era rivelato il migliore per difendere il loro mondo da eventuali attacchi esterni. A sud e ad ovest il mondo finiva con la barriera, un limite invalicabile che in passato era stato più volte scalato nell'assurda ricerca di nuovi mondi ma che aveva portato solo la morte a chi aveva osato cercare di superarlo.
Kona sapeva che la scienza ora aveva chiarito che quella superficie liscia si estendeva all'infinito fino alle stelle e quindi era stupido ed inutile cercare di superarlo, alla fine della barriera c'era solo la morte !
A nord e ad est invece c'era l'oceano a volte secco e bruciato, a volte con enormi laghi d'acqua. Anche questi limiti erano stati esplorati molte volte nel corso del tempo. Su questi limiti del mondo non era ancora stata detta la parola definitiva. Secondo alcune dopo lunghissimi viaggi si poteva arrivare in altri mondi, secondo altre, come la barriera, si trattava di limiti infiniti senza mezzo di sostentamento. Per la verità Kona era convinta che là da qualche parte ci fossero altri mondi e a sostegno di questa tesi c'erano mille racconti di Antiche che avevano sfidato l'oceano ed erano tornate a volte persino con del cibo.
Non c'erano però prove certe, secondo molte sorelle erano storie senza capo nè coda e la cosa era ancora molto dibattuta. Kona aveva pianificato varie spedizioni "oltre l'oceano bianco" ma senza riuscire mai a convincere la Regina ad assegnarle un esercito e delle vettovaglie per la spedizione. Da un certo tempo poi le cose erano mutate, il clima era sconvolto, il cielo, che per tante generazioni era stato sempre o azzurro o grigio e portatore di piogge era diventato per buona parte verde.
La pioggia cadeva raramente, l'acqua era sempre più scarsa e anche il cibo era diventato sempre più raro. Le Antiche vivevano sottoterra, dove avevano scavato le loro città, dove tenevano il cibo, dove accumulavano acqua e ogni altra cosa che servisse loro. In superficie andavano solo per cercare il cibo o per fare da vedetta o per difendere il loro mondo da un invasore. Il loro mondo quindi erano in realtà due, uno in superficie con valli, montagne altissime, prati, animali, e sopratutto dove si trovava il cibo. Il secondo mondo, molto più tranquillo era il loro mondo sotterraneo che avevano quasi interamente modellato a loro piacere, con le loro case collegate da strade sotterranee, con le zone di accumulo del cibo, con le riserve d'acqua.
Uno dei fatti scientifici che inequivocabilmente aveva permesso di stabilire che la barriera che delimitava il mondo a nord e ad est era infinita verso l'alto, erano stati gli scavi che vennero fatti non molto tempo prima, scavi che avevano permnesso di verificare che la barriera si estendeva all'infinito anche verso il basso. Al contrario studi simili, fatti nei pressi dell'oceano bianco avevano dimostrato che, dopo un notevole dislivello di molte lunghezze, l'oceano, che pareva della stessa consistenza della barriera, finiva e il mondo sotterraneo continuava là sotto come in ogni altra parte del loro vasto mondo.
La cosa più straordinaria era però la strada del cielo.
Praticamente al centro preciso del mondo c'era la strada del cielo. Per molto tempo si era pensato che la strada fosse praticamente immutabile o quasi.
In un certo periodo dell'anno oscurava parte del cielo ma poi tornava presto alla sua condizione normale. Ultimamente invece la strada era diventata enorme e oscurava ormai buona parte del cielo provocando carestie e siccità. Questa enorme montagna, alta diecimila volte più di qualunque altra, era chiamata proprio per questo la strada del cielo : chi era arrivato fino in cima aveva visto le stelle.
Pur essendo infatti straordinariamente più alta di qualunque altra altura del loro mondo le Antiche non si erano certo fatte intimorire ed era stata oggetto di varie spedizioni e conquiste. Kina si era persa proprio mentre era in esplorazione ai limiti della grande montagna e le sentinelle allora la coprivano quasi per intero; molte sorelle avevano trovato vari tipi di cibo proprio esplorando la montagna, che ormai era diventata una delle poche zone dove trovare sostentamento in tutto il mondo delle Antiche.
Kona quella notte dormiva, avrebbe dormito, se ci fosse riuscita, nell'accampamento base, dove l'esercito era stato radunato, a quota tremila lunghezze, proprio nel punto dove iniziava una delle zone ancora inesplorate della strada del cielo. Le sentinelle avevano perso il contatto telepatico con Kina proprio lì, pochi giorni prima e questo poteva voler dire solo due cose : Kina era morta oppure ...
Le ricerche iniziarono subito, sebbene non con grandi speranze e con solo un manipolo di cinque sorelle, queste si avventurarono fino agli estremi di quella zona desolata ma non trovarono traccia di Kina, nè viva nè morta e dopo due giorni di ricerche tornarono alla base a riferire. Kina non era certo una grave perdita per il mondo delle Antiche, era un mondo che contava milioni di sorelle e nella mentalità delle Antiche un individuo era sempre sacrificabile per il bene della collettività.
Quella zona poi era completamente priva di cibo e dopo tre giorni Kina era sicuramente morta. Almeno questo pensavano tutte. Invece al quarto giorno Kina era ricomparsa.
Non solo.
Non era tornata stremata ma era in buona salute anche se delirava di avere scoperto un nuovo mondo. Nessuno le aveva creduto ma, con la carestia che incombeva sulle sorelle e non potendo negare che Kina qualcosa da mangiare doveva pur averlo trovato, venne organizzata una spedizione, questa volta molto più corposa, siccome si cercava del cibo e non più Kina che per fortuna era tornata sulle sue gambe. Si era infatti ipotizzato che Kina avesse, senza volerlo, trovato un qualche deposito di cibo, una fonte alternativa, qualcosa insomma e che, nel suo delirio,avesse deciso addirittura di aver trovato un nuovo mondo. Comunque fosse Kina faceva parte di questa spedizione in quanto, pur nella sua pazzia, era di fatto l'unica che sapeva, almeno avrebbe dovuto sapere, dove fosse il cibo.
Kina condusse le altre venti fino alla fine di quella landa desolata della strada del cielo fino a quando la montagna finiva e finiva su un nuovo, sconosciuto, oceano bianco !!!
Giunti a quel punto la comandante del manipolo decise di stabilire un accampamento e di aspettare ordini per continuare, rimandando tre sorelle a riferire alla prima vedetta. Il giorno seguente ebbero l'ordine di proseguire, e Kina non stava più nella pelle per la gioia, guidò le sorelle attraverso quell'oceano così diverso dagli altri conosciuti. Era un oceano con strane montagne, con molti trabocchetti e una sorella persela vita durante quella prima esplorazione in circostanze misteriose. All'improvviso il cielo si oscurò e Ketta, che era l'ultima della fila lanciò un urlo mentale, tutte le altre si voltarono e corsero da Ketta ma di lei restava ben poco, il corpo dilaniato da una immane forza che non seppero capire cosa fosse. L'entusiasmo calò di colpo ma la spedizione non poteva certo essere interrotta per una perdita. Perdite ne erano state messe in conto e quindi, a testa bassa, quasi senza pensare, continuarono.
Dopo un lungo cammino tra nuove straordinarie cose, mai viste prima di allora, arrivarono nel punto dove secondo Kina c'era un tunnel molto stretto, al di là del quale iniziava il nuovo mondo. In effetti iniziava lì una barriera, simile alla barriera che delimitava il loro mondo. In questa barriera però c'era una piccola discontinuità, appena grande abbastanza perchè una sorella mingherlina ci si potesse infilare e Kina diceva di esserci entrata e si era già offerta per farlo di nuovo. Con lei venne mandata in avanscoperta Kella, la più minuta del manipolo. Kina si infilò per prima, Kella, pur essendo minuta entrò con difficoltà e si ferì nel tentativo di entrare in quel pertugio ma alla fine sparì anche lei alla vista delle altre.
Una nuvola di preoccupazione e di sconforto per tutte le cose ignote e per le tante ancora che potevano esserci, sia in quello strano oceano, sia alla fine del tunnel, avvolse il resto del manipolo, facendo tornare alla mente la triste ed inspiegabile fine di Ketta. Intanto Kina e Kella stavano facendosi strada all'interno della galleria, un anfratto scomodo e stretto ma non esageratamente lungo, ecco che finalmente entrambe sono dall'altra parte. Kina aveva ragione !!!
Non c'era nulla di esagerato nel suo racconto, il nuovo mondo era così diverso dal loro mondo. Era diverso a partire dai colori, dagli odori, insomma era un altro mondo. Ma quello che più conta ...c'era cibo, tanto cibo. Kina portò Kella a vedere il Lago delle Delizie, uno dei posti che aveva scoperto.
In questo lago piuttosto grande c'era cibo addirittura in quantità enormi, infatti era un lago fatto di solo cibo !!!
Come era stato loro ordinato assaggiarono un po' quà e là, fecero un'ispezione solo della zona immediatamente vicina al tunnel e si accinsero a ritornare. Era passato un tempo che a loro sembrava brevissimo, affascinate com'erano, una dall'aver dimostrato che aveva detto al verità e l'altra dall'aver visto il Nuovo Mondo, come già lo aveva soprannominato. Dall'altra parte del tunnel invece il tempo passato era stato tantissimo e l'apprensione e la paura erano aumentati a dismisura. Nessun segno, nessuna sorella ancora uscita dal tunnel, nulla di nuovo.
Quando finalmente Kina e Kella uscirono alla vista delle sorelle fu come se tutte insieme avessero respirato dopo aver trattenuto il fiato dal momento in cui erano sparite alla loro vista. Nessuna di loro chiese nulla, ma anche solo dal fatto che Kella non si lamentava, anzi quasi non si accorgeva nemmeno di essere ferita capirono che qualcosa di grande, misterioso e importante si trovava dall'altra parte del tunnel.
Come era nei piani la spedizione fece ritorno alla base e già in serata Kella riferiva alle Alte Comandanti dell'esercito quello che avevano scoperto.
"Il solo lago delle delizie contiene cibo per un mese, forse per un anno, per tutte noi". Kella era una sorella affidabile, non era Kina e la sua testimonianza convinse subito le Comandanti che doveva essere mandata una seconda spedizione. Per prima cosa occorreva allargare il tunnel e secondariamente bisognava restare abbastanza a lungo per scoprire se ci fossero degli abitanti del Nuovo Mondo e se era possibile muovere una guerra di conquista e prendere il controllo di quel luogo così ricco di cibo.
Una notizia così importante in un mondo dove tutte sono telepatiche impiegò solo pochi secondi per essere diffusa e il giorno seguente un esercito di mille sorelle era già pronto per la seconda fase della missione. Tra di loro c'erano esperte del genio, c'erano operaie, c'erano insomma tutte quelle che dovevano servire per fare un lavoro ben fatto. All'alba si cominciarono i lavori sul tunnel e alla sera era già stato allargato abbastanza per permettere che due colonne di sorelle potessero una entrare e una uscire contemporaneamente. Le Antiche erano un grande popolo e quando iniziavano un'impresa lo facevano sempre nel migliore dei modi.
Tutto il loro mondo era stato messo in allerta per quello che si preannunciava il più grande sforzo bellico della loro lunga storia. Un grande sforzo che avrebbe permesso però di lasciarsi alle spalle per sempre il demone della carestia. Un giorno intero di permanenza e di esplorazione nel Nuovo Mondo aveva tranquillizzato anche le alte sfere dell'esercito. Non c'erano molti abitanti nel Nuovo Mondo. Solo alcuni animali che si tenevano per lo più alla larga. L'unica presenza inquietante era la Montagna che si Muove. Così era stata soprannominata perchè era a tutti gli effetti una enorme montagna, grande come non ce n'erano altre al mondo, cioè nel Vecchio Mondo, a parte la Strada del Cielo ovviamente.
Ma la particolarità della montagna era che a volte si spostava e prendeva varie forme. Si trovava spesso vicino al lago delle delizie e pareva addirittura viva !!!
Ma anche la montagna che si muove alla finesi era rivelata innocua, bastava scappare quando era troppo vicina e non c'erano altre conseguenze.
Le perdite erano state dunque esigue per non dire nulle e già erano cominciati i lavori per trasportare il cibo dal Nuovo Mondo verso il vecchio.
Le comandanti dell'esercito e in particolare Kona erano però sospettose, a molte sembrava impossibile che fosse tutto così facile. Alla fine il Gran Consiglio con a capo la Regina stessa aveva deciso di invadere il Nuovo Mondo con un esercito vero e proprio, stabilire delle basi, mettere le vedette e prenderne possesso. Se fosse stato necessario combattere, ebbene per tutto quel cibo ne valeva veramente la pena !!!
Kona si tranquillizò, domani c'era da iniziare una conquista, non una guerra vera e propria : mancava il nemico !
Tutto era pronto.
Sotto il suo comando c'era un esercito di centomila Antiche. Era un esercito invincibile ! Centomila ... le migliori centomila Antiche, non centomila a caso !
Il giorno seguente l'esercito si mosse alla volta del Nuovo Mondo. Per prima volle entrare Kona.
Al di là del tunnel però si trovò in un mondo molto più luminoso e rumoroso di quello che aveva riferito quella Kella, ma si sà, non era nell'esercito, quindi non era molto più affidabile di quanto lo fosse Kina. Le truppe entrarono e le Antiche presero il controllo di una vasta area di molte e molte lunghezze.
Si misero a controllare i punti strategici, e cominciarono ad essere assegnati i posti di vedetta. Per molto tempo la conquista proseguì senza incontrare la benchè minima resistenza e l'esercito prese il controllo assoluto del Lago delle Delizie dove diecimila sorelle cominciarono il lungo lavoro di trasferimento del cibo verso il Vecchio Mondo. Kona guardava le operazioni da un'altura e disse alla sua vice. "Forse dovremmo trasferirci qui, nel Nuovo Mondo". "Mi pare un po' presto per dirlo Kona, non siamo ancora così sicure di quello che può succedere". "Sento che avremo un grande futuro, questa terra è ricca, il cibo abbonda, perchè fare questo enorme sforzo di portare tutto laggù nel Vecchio Mondo ?".
Poi, imprevista, imprevedibile, incredibile, d'un tratto arrivò la fine del mondo. La fine del Nuovo Mondo !
Kona non capì, non seppe reagire, accadde tutto troppo all'improvviso. Il Lago delle Delizie volò da solo, nel vuoto. Migliaia di sorelle morirono in pochi secondi, mandando strazianti segnali telepatici. Kona perse immediatamente il controllo della situazione perchè non sapeva che ordini dare e le menti di tutte le sorelle erano sommerse da urla telepatiche di dolore e di morte. Dopo ore di ritirate, battaglie, fughe, contro un nemico invisibile, che arriva da ogni parte, che uccideva una o mille sorelle alla volta, tutto l'esercito era in ritirata.
Si poterono solo contare i morti di quella assurda e avventata impresa. Quasi ottantamila sorelle alla fine erano o morte o disperse. Il nemico aveva distrutto, non si sa come, una parte della Montagna del Cielo e la via per il Nuovo Mondo non era più percorribile. Ora si temeva che un nemico così forte, così imprevedibile potesse cercare di distruggere e conquistare anche il loro mondo.
Kona.
Kona fu processata per incapacità e venne condannata ai lavori forzati a vita. Quello che sembrava essere il primo giorno di una nuova era si era trasformato in una immane tragedia per le Antiche, un monito che si sarebbe tramandato per generazioni e generazioni.
Proprio mentre la giuria leggeva la condanna di Kona, nel Nuovo Mondo si sentirono queste strane voci:
Marta:"Maaaaaaaaaaaaaaaaxxxxxx !!!"
Max:"Ehh?"
Marta:"Oggi ho fatto una strage !!!"
Max:"Che hai fatto ?"
Marta:"Andiamo via due giorni e quando torniamo : un disastro ..."
Max:"Ma che disastro, mi spieghi cosa è successo ?!?!"
Marta:"Avrò ucciso centomila formiche : avevano invaso la cucina, la ciotola del gatto era p-i-e-n-a !"
Max:"Ahhhhhh ... sei la solita esagerata, centomila, sì, millemilamiliardi di formiche ... come no !"
Marta:"Erano millemila, giuro ! Mi sa che salgono sull'albero che c'è in mezzo al cortile e passano dal ramo che si appoggia al balcone; ne ho strappato un ramo."
Max:"Ecco, sì, hai ragione, entrano dal buco dove passa il tubo del gas. Adesso spruzzo l’insetticida dentro il buco e domani facciamo potare l'albero".