lunedì 17 dicembre 2007

"Il vento del ‘43" (Inedito di Marco Busetta)

A mio padre
Continuavano i bombardamenti, né potevano ragionevolmente finire se prima non fosse accaduto l’irreparabile. Sentiva questa convinzione tanto fisicamente da non poterla definire un distratto presentimento; né tanto meno il frutto di un’immaginazione pure ragionevolmente prostrata dai trenta giorni di cannoni inglesi. Erano i primi di giugno, e l’unica altra cosa chiara che sentiva era il voltastomaco per il solo alimento che riusciva a reperire con facilità: chili di uva passa, nient’altro, che presto gli avrebbero cariato i denti. La portaerei del Mediterraneo moriva di fame, o almeno così era per lui. D’altro da mangiare era difficile trovarlo: qualcuno diceva che le bombe pescavano bene, nel porto, e che c’era solo da scendere a raccogliere pesci stecchiti sulle banchine; ma la verità era che sembrava che nessuno credesse davvero che la disgrazia sarebbe finita, magari di lì a qualche giorno, e bisognasse pensare invece al dopo, a continuare a curare la terra. Facevano schifo quei divertimenti a festeggiare la morte, non si accorgevano che quei pesci potevano essere loro, anche domani, anche la sera stessa: un disgusto peggio dell’uva passa gli saliva con un conato. Nessuno voleva accudire quella terra, nessuno voleva volgersi a porle un disperato omaggio. C’era chi raccontava ancora che tanto in fondo agli hangar c’erano provviste per anni. Nessuno voleva dedicarsi a riprendere a grattarla, a solleticarla, a ferirla quella terra perché rimarginasse ogni cosa con la sua polvere buona, con la sua polvere sana.

Si teneva in piedi appoggiato a un muro davanti la casa e si chiedeva se avrebbe mai ripreso a far pascolare la capra. Ora la teneva chiusa nel giardino dove era piantato il limone, costruito in pietra nera alla maniera araba, visto che la stalla era occupata. Veniva a dormirci un poveraccio. Portava da mangiare la sera e al mattino, quello che trovava, in genere uva passa, pane, fieno, a quello e alla capra, anche se non gli pareva cristiano che mangiassero insieme. Poteva stare, nessuno l’avrebbe cacciato, ma l’importante era che non si cenasse alla stessa tavola. L’aveva sentito alzarsi al mattino col buio, e rientrare a notte già fatta. Non parlava quasi mai, si limitava a ringraziare, una o due volte, se s’incontravano. Andava in giro, non si capiva per cosa, dicevano che era amico dei tedeschi. Ogni tanto rientrava con qualcosa di involto in uno straccio, ma cercava di tenerlo nascosto. Forse una mezza stecca di sigaretta o una pistola o del pane. Si dicevano tante cose, che gli italiani si sarebbero arresi, che molti volevano farlo subito, ma c’erano due o tre ufficiali che facevano i duri. La capretta la faceva uscire quando poteva, si vedeva che era nervosa a star chiusa lì dentro. Quella povera bestia non poteva stare tutto il giorno in galera, sarebbe morta, ma di farla pascolare libera non gli sembrava proprio il caso. Quando era fuori c’era il rischio che qualcuno la rubasse, con la fame che c’era. Anche il morto di fame che ospitavano, poteva mangiarla, così, a morsi. Cercava quando poteva di scendere al porto, per cercare pane e pasta, ma era diventato molto prudente. Attraversando il paese i piedi sembrava soffrissero di una dolenzia nuova, che niente aveva a che fare con le suole di cartone bucate e le pezze di stoffa ai piedi. Il paese era in buona parte macerie, il castello era un mezzo gigante ottuso, illeso, ma che sembrava avesse conosciuto un grande spavento; gli pareva di sentirlo lamentarsi, con un mugugno sordo. Barcollando sentiva per le strade la debolezza, l’inappetenza verso ogni resistenza concreta; i P-38 seguitavano le incursioni, la notte ogni tre ore. Si sentiva l’antiaerea che sputava molliche, infine le esplosioni a grappolo. E dalla terra pareva salire, attraverso un dolore nuovo, mai provato prima, tutta quella tragedia. La sentiva proprio camminandoci in mezzo. Per fortuna ci sarebbe stato l’onore delle armi, almeno quello. Si diceva anche che qualcuno quegli ufficiali irriducibili presto o tardi li avrebbe fatti secchi. Doveva essere il fischio degli aerei, doveva essere la puzza di fame a far cedere la terra. I piedi sentivano tutto il dolore della terra offesa. Ci sarebbe stato da tirargli addosso con le fionde a quei mostri nel cielo. E sputare addosso a chi non ammetteva di causare solo il prolungarsi della tragedia.
Erano saliti nella casa di campagna, a Gelfiser, per stare un poco più tranquilli, ma questo non aveva mutato la sostanza delle cose. Era l’aria acre di bombe che appestava l’isola intera fino a chilometri di mare intorno. Il mare doveva essere deserto. Il vento capriccioso di libeccio pure lui incapace di un soffio opportuno non faceva che spalmare il fetore in ogni cavo. Gli hangar innanzitutto per i soldati. Lì si stava sicuri, certamente. Si diceva che lì dentro le bombe non ci potevano in alcun modo. Ma c’era ancora meno aria. L’aria girava e rigirava, sempre più sporca. Ci sarebbero voluti anni per ripulire, anni di vento, di piogge, di respiri di gente nuova, che venisse in pace, di nuove esplosioni magari, dei fuochi d’artificio portati da Marsala. Chiudendo gli occhi percepiva il desiderio più osceno: fare tabula rasa di tutto, delle case, degli animali, portare il deserto. I cannoneggiamenti di sostegno sembrava volessero spezzare il sale della terra, come se l’inferno calato dal cielo non servisse abbastanza a consumare lo scempio. Chi aveva cominciato? Nessun lavoro dell’uomo, per nessun tempo, avrebbe mai potuto rimediare a tanto; e l’angoscia per i fossi nelle strade temeva dovesse annientarlo da un momento all’altro. Forse avesse eruttato il vulcano come non succedeva da millenni, forse solo così si sarebbe potuta cancellare quella catena di oltraggi. Il pensiero andava al cono otturato e pieno d’acqua, specchio di dee ora in vacanza altrove, forse in America: una possibilità di redenzione che almeno fosse della natura, autentica e legittima, doveva arrivare. Quello si, avrebbe potuto. Una pioggia di lapilli dal basso contro fortezze volanti, le avrebbe colpite, sciolte, risucchiate come nessuna antiaerea avrebbe saputo. Ma l’immagine muta, persino svogliata di quel lago quieto e anzi pesante per la poca acqua, dissolveva in un momento la speranza. Una mattina tardi, per caso dietro un terrazzamento abbandonato proprio lungo la strada di polvere grigia e verde che girava per le cùddie attorno al lago, con la terra smossa da qualche animale affamato e a quell’ora già morto, da dietro un muro di pietra venne una figura. Benché i contorni fossero incerti e l’apparizione fosse durata un momento appena, immediatamente capì cosa voleva dire: erano quelli i modi per apprendere che il 10 di giugno del 1943, nell’ultimo giorno di bombardamenti, suo padre sarebbe morto schiacciato da un tetto crollato per un’esplosione più inutile delle altre. Solo quel giorno, compiuto quell’ultimo assassinio secondo regole di sacrifici mai comprese, l’attacco all’avamposto d’Europa sarebbe potuto banalmente terminare, prova generale di un D-day più degno.

In quel momento preciso si determinò ogni sciagura: la fine del cataclisma e l’inizio dell’invasione – camuffata per festosa, blaterata per liberazione - gli fece perdere più che la pazienza, addirittura il senso stesso della vita, perfino l’onestà nei suoi stessi riguardi. Al caos che distrugge era seguito il disordine vandalico: c’erano uomini che sembrava potessero fare quel che volevano e conquistare ogni terra senza neppure averla vista fino ad allora da meno di trecento metri. Come si possa passare dalla guerra alla pace, dal ghigno d’odio all’abbraccio. Come si pretenda di liberare radendo al suolo, rendendo orfani i protetti del giorno seguente. E come si possa davvero permettersi un sorriso, l’inganno di un’impalcatura di sincerità. Quella figura dietro al muro portava galloni, stelle scippate al cielo certamente nel corso di uno dei raid in picchiata. Ma erano gradi scuri, dello stesso colore della veste, e non poté dirne con certezza il grado né l’armata di appartenenza. Sapeva di per certo solo che erano strani, stranieri.
Da allora per rabbia avrebbe cominciato a considerare le scene altrui come allestimenti di umanità incomprensibili, i gesti e l’avvicendarsi sarebbero divenute cose perfettamente fraintendibili: una mano alzata in segno di saluto poteva discorrere come un segnale di stop, di arresto necessario, urgente persino. Una mano aperta che doveva in origine chiarire buoni propositi s’era da poco archiviata come il preciso segnale di uno spettro epocale, da raccontare ai figli se solo fosse stata data la grazia di sopravvivere. Dietro un riso, magari mezzo schermato, o una mietitura di grano ci poteva benissimo stare tutto il dolore di questo mondo, e così per un baffo, un’espressione, ogni testa di morto in stiffelius. E i liberatori rivelarsi più cattivi della polizia che torturava i ladruncoli, colle grida dei poveri cristi che spaccavano i muri. Altre fessure, altre fessure ovunque. La scuola privata di antifascisti in esilio si sarebbe dissolta in una sporazione per gli atenei di tutta Italia. Il professore di latino e greco avrebbe insegnato in caput mundi. La sua isola a forma di uovo sarebbe stata dimenticata e lui accatenato alla terra col vaiolo aviario, butterata da quegli uccellacci di ferro. Chiunque fosse passato di lì, per un verso o per l’altro, aveva lasciato buchi e squarci ovunque. Altri sarebbero partiti, avrebbero trovato moglie straniera, avrebbero conquistato terre più comode da rivoltare, più morbide e grasse di quella, meno contaminate di polvere omicida. Aveva diritto a scappar via anche lui, su questo non potevano esserci dubbi.
Ma la paura che del bene si compisse - magari per sbaglio, per una polvere maligna penetrata attraverso una crepa nella casa sforacchiata dagli angloamericani - che questa luce rischiarasse quella terra, che persino quella casa moncata dall’assassinio del padre, assassinio atroce perché immondamente inutile, inavvertitamente e senza che lui ne godesse per l’assenza decisa in fretta e male, che quella casa potesse ritrovare una sorte; che tutto ciò avvenisse quindi rinnegando lui, scandendone anzi la mancanza e nonostante l’esserci perpetrato per tutto il male di quegli anni, il dolore inarginabile di quegli ultimi giorni, questa paura spugnosa, ineguale e fitta di umori ristagnati, lo costringeva all’immobilità. E negli altri, nei fantocci attorno che pure scemi si dimenavano fingendo di non sapere, non trovava pareri né vaticini e neppure segnali più scadenti. A chi chiedere tracce?

Ci voleva della buona malta e una cazzuola. Tappare i buchi anzitutto, poi, forse, partire. Rimanere sembrava un obbligo naturale, una condizione ineluttabile, una disposizione che rispettasse i vuoti e i pieni dovuti. Ma in effetti non si era mai spesa una parola parlata né a favore né contro quest’ordine. Quelli in divisa con scarponi robusti mai visti, lui ancora con le pezze ai piedi per calze. Quelli ridevano, offrivano cioccolata dolciastra, insegnavano a tutti a fumare. C’era da ricostruire, da prendere le vanghe e le zappe, da accettare il lavoro con gli americani, c’era la possibilità di diventare boss, il capo del magazzino delle derrate. E poi aspettare che se ne tornassero al loro paese, e approfittare di quello che avrebbero lasciato: marmellata, burro di arachidi, fagioli in scatola, piselli in scatola, tutto dentro le scatole, la carne persino, buona. le patate, dolci. Lui conosceva già qualche parola di inglese, imparava presto: una decina di uomini erano saliti, avevano preso possesso della loro abitazione di campagna, praticamente l’avevano requisita; gli avevano offerto del tè con un goccio di latte. of milk. La madre aveva rifiutato emettendo un mugugno e alzando le braccia. Erano stati gentili, con quelle facce chiare: sembrava brava gente, gente educata gli Inglesi. Forse poteva andarsene con loro. A Londra, forse, o a Boston. Gli Americani sembravano tutti portoricani, c’erano anche oriundi italiani, della Calabria specialmente, e napoletani. Ma per quanto gentili avevano rubato comunque la casa e li avevano ricacciati tra le macerie del paese. Ordini del comando, chi ci credeva. L’edificio di due piani in paese non era stata colpito direttamente, solo per un miracolo, ma molte schegge erano penetrate sui muri: forse c’era da temere che una notte crollasse tutto. E senza che una sirena li avvertisse. Buchi, sempre buchi, ovunque brecce nella materia, anche quella più lieve che sentiva dentro. Una famiglia di vicini più sfortunati aveva chiesto di poter stare di sotto, di dormire in cucina, per carità di dio, finché non avessero ricomposto in fretta le loro macerie. S’erano portati un materasso di lana con uno strappo e riuscivano a russare. Tornava alla casa, erano tornati al paese. C’era una mezza epidemia di enterocolite. In casa non c’era rimasto niente, non c’era neppure la possibilità di tentare di ricostruire qualcosa. La normalità, ciò che era stato prima, prima di tutto, era talmente rimasta distorta da non potervi che rinunciare del tutto. La vita gli sembrò una cosa fiaccata, una canna spezzata proprio sul più bello, che adesso doveva ripiegarsi a leccare la terra. La madre diceva che il posto di lavoro cogli americani era buono, avevano fame, doveva approfittare: lui aveva studiato, aveva fatto in tempo a prendere la licenza classica; era giusto, doveva: glielo ripeteva tutto il santo giorno, mentre riprendeva a impastare un poco di pane, finalmente, dopo forse due mesi. C’era farina in paese, a razioni per tutti. La licenza in quattro anni, col salto della quinta ginnasio, non era cosa da tutti. Doveva dirglielo, certamente. Bocca che non parla si chiama cucuzza. Invece sognava ancora di andarsene, di arruolarsi con gli inglesi, di rubare una divisa qualsiasi e camuffarsi. Ièsser, ièsser, che ci voleva. Al suo posto non doveva restare che la sua forma vaga, il suo peso scarso, il movimento di umori ormai troppo noto per valere la pena di continuare a viverlo: avrebbe preferito fosse quello a decidere per lui, il suo fantasma. Lui pregava di andare, ma madre vedova, sorella affamata, casa distrutta: come poteva? Del negozio non era rimasto più niente. Le tremila lire in banca non gliele avrebbe date nessuno. Forse erano servite già. O forse la banca non esisteva neanche più. Un buco al suo posto. Certo prendere una barca fino a Marsala, poi magari cercare Palermo, da lì di nuovo il mare. Proiettando la sua fuga, il ricordo in découpage magari nel porto di Marsiglia, mentre cercava di fumare su un molo, l’avrebbe quello solo ossessionato abbastanza da preferire tornare alle notti di bombardamento, colle sirene che scavavano le vene, ma almeno sentirsi colla coscienza a posto: due o tre tratti, qualche espressione tipica possibilmente deformata secondo le convenzioni, eccetera: sarebbe bastato questo purché incorniciato nei tratti della madre già quasi canuta, sarebbe bastato un suo cenno per sciupare ogni volontà. Questo bastava per desistere. Per svuotarlo immediatamente. Per farlo sentire illegittimo alla terra oltre il mare. Un’altra creatura - più bella, più capace, più impegnativa o semplicemente più ingombrante - Mastroianni avrebbe detto qualche anno più tardi, a Roma, per un posto in banca, seduto al cinematografo - avrebbe infranto l’equilibrio presunto e generato inattesi collassamenti nella materia familiare. Non era capace di permettersi un capriccio. Poteva lasciare la sorella in sua vece, lei avrebbe potuto lavorare per la madre, fare andare avanti la casa. Non era grande abbastanza però, avrebbe dovuto rimandare. Andava bene così, che ci fosse lei, particella domestica, assai poco indagata ma rispettosa e obbligata per tributo genetico: sarebbe stata più brava persino di lui; ma solo tra un paio d’anni, forse tre. Si fosse fidanzata ci sarebbe stato un uomo. Era leggera quella sorellina, forse vuota, ma il fatto di vederla così simile in viso gli pareva un conforto, uno dei pochi in mezzo a tante macerie. Il figlio come replicazione, come maschera o specchio. Il figlio come fantoccio minuscolo e inappetente. Ne servivano due per forza a quella casa? La prole è una scatola viva entro cui decidere la propria rigenerazione, ma a volontà: questo o quella. Altrimenti la prole come vicolo morto, foglia secca non per colore, per forma, per apparente vigore, ma per mancanza di autentica linfa, mancanza manifesta a chi della linfa è persuaso di essere autentica fonte. E pur sempre foglia di un albero, simile all’intera faccenda vegetale. Si, lui era una foglia secca, che si sarebbe seccata presto e che era meglio si facesse trascinare dalla prima boccata di vento buona verso Marsala.

4 commenti:

Mario Govoni ha detto...

Terzo racconto inedito e terzo racconto proveniente dal fu Concorso letterario di Scripta ...

Anonimo ha detto...

C'è qualcosa di asciutto ed austero,
una rabbia composta che ti conduce attraverso la Storia, facendosi storia.
Mi è piaciuto. Molto, pur non essendo il mio genere.

Anonimo ha detto...

Bravo Marco! Lo scrittore-pianista-ingegnere... ;)

Anonimo ha detto...

grazie a tutti. Ciao Musicanti!