domenica 23 dicembre 2007

"Nostos" (Inedito di Tania Giuga)

Un ritorno, ti conosco sotto la luce della grazia.

Ti stavo aspettando. Entra. Durante questa lunga assenza, il pensiero inventava un sorriso, ripassando il biglietto che m’infilasti in tasca prima di partire. Se ricordo bene, scrivesti che ti mancava il mio malizioso indugiare dietro la porta d’ingresso, per coglierti alla sprovvista, in penombra, con un bacio. Di rannicchiarmi, scomparendo sul sedile anteriore dell’automobile, aggrappandomi alla tua mano posata sul cambio.
In viaggio ho ripercorso noi. Nei rari giorni senza maestrale, mentre la campagna assordante di cicale si inaspriva, bevendo il turchese salmastro del mare. Ogni tanto una spina acuminata, dritta e spavalda, interrompeva il silenzio modulato dalle nostre mille parole d’amore. A beffa della distanza, ti stanavo a ogni angolo. L’andirivieni della gente in ozio, allungava un minuto d’ombra sulla mia schiena, tra occhiate frettolose e passi distratti sulla rena. Ma il tuo odore mi ha sempre accompagnato, con l’aroma stordente del giorno che deve morire. Quando le tue labbra cercarono le mie, la prima volta, nel concitato frastuono di una nottata euforica, io assaggiai il brivido di una familiarità fraterna e assoluta; pensai d’essere nuda e quella naturalezza avida e svestita, l’abito più consono alle nostre conversazioni.

Perdonami l’enfasi, l’inclinazione lirica è un difetto duro a spegnersi. Intanto che salivi le scale, lo stomaco mi si torceva, nel timore di qualche dettaglio estraneo al tuo modo definitivo di sorridermi, di camminare danzando. Ci salutiamo da confini adiacenti e biforcati, mentre villeggi molle e svagato con la tua famiglia.
Appena giunta, i bagagli disfatti per metà, l’immancabile Benson tra indice e medio, mi cullo nell’assolata tranquillità della casa materna, evitando di riallacciare vecchie amicizie, per non svelare di te a compagni comuni, per sottrarmi al giudizio facile, al rischio delle confessioni che nella calura meridiana sono divulgate per tedio incombente. E tu che pensavi di stringere tra le braccia una sfacciata virago metropolitana! Ora che ti posso ghermire nella calma della semplicità, ti pettino i capelli ondulati e ribelli con le dita e mi pervade un lieve tremito, annusando la tua testa brizzolata. Ironizzi sulle mie conquiste. Ribatto giocando a ingigantire il tuo inossidabile fascino; maturo seduttore di ninfette sprovvedute! Ma nemmeno un residuo di sarcasmo offusca il tuo sguardo bruno e acquatico, che esplora la mia pelle abbronzata. Era scritto, di questo ritorno in te, da un destino preciso che ha fatto i conti con altri regimi di prossimità. Avvolta nella nuvola del profumo che mi lasciasti in pegno, entrambi stregati dalla memoria olfattiva, ci muoviamo nel buio creato per lenire qualsiasi imbarazzo, ci alziamo e abbassiamo uno contro l’altro…Siamo così vicini, da confonderci, eppure un’ombra, una lama di uggia, di buio, s’insinua a pugnalare la bellezza, i sussulti ritmici di una fratellanza fisica e spirituale. Ci somigliamo, il cuore come la luna, sterrato da antichi crateri. Il tempo, il tempo, il tempo, una pasta corposa, un nodo intrigante di vizi e virtù. Quanto ne abbiamo, quanto ce ne rimane, a chi lo neghiamo, mentre ce lo regaliamo. Mi vesto di bianco, è un colore pio e orgoglioso, aperto e vago. Ti prendo e curi ogni male. Sei mesi di catarsi, di immemore sonnambulismo.
Sola, distesa sul divano, lascio che l’anta della porta finestra sbatacchi per ore, con cadenza uguale e metallica, accompagnata avanti e indietro dalla mano dello scirocco, greve d’umidità. Esanime, mescolo rievocazione e scorci immaginari del libro giapponese che sto sfogliando annoiata. Un cattivo romanzo, tradotto con approssimazione, nel quale succede di imbastire l’abito ad un po’ di relitti adolescenziali.
Parliamo stretto, impulsi trasmessi in alfabeto Morse, un lessico di sistoli e diastoli, un alito lungo.
Slittiamo nel piacere amaro della resa e, mentre ci tempriamo, simulando che ognuno imbocchi di lì a poco divergenti tragitti, seguitiamo a bagnarci l’uno nella fonte dell’altro. Prigionieri spontanei di un cerchio privato, che questi quartieri e questa terra bollerebbero come amorali e sacrileghi; eppure la nostra è la storia più vecchia del mondo.
Amanti per volontà pervicace da naufraghi, condannati a trarsi in salvo, sempre.
Muore la quiete clandestina, i labirinti di foglie, travolta da mulinelli di venti contrari; mi proteggo con le tue camicie blu, seconda pelle di cotone e lino. Ma questa è la partita a scacchi degli eventi, concepita al rovescio: chi perde si strapperà al pericolo.
Siamo, per un attimo, poi, fortuitamente, per un altro ancora. Ti stendo sulle guance il belletto del passato, al quale mi avvinghio per capire; apriamo ferite e cauterizziamo tradimenti, facciamo l’amore.
Tua moglie presentì, nei suoi sogni, anni addietro, con largo anticipo: mi malmenava per averti sedotto.
Ti conosco, sempre meno, ancora di più, quando approdo e ti discosti, non disponendo della facoltà di annullare il mio disadorno io, il possesso, l’attaccamento. Scambio il posto con te e divento marito, anche se l’ufficialità di una relazione non mi si addice. Sarei codice conforme di ciò che è bene, quel che è lecito, opportuno, spesso fasullo.
Stavolta tocca a me rinunciare a incontrarti, in favore dell’estate altrui.
Torni alla base, al tuo guscio di occupazioni e smaniose insofferenze, io, alla mia civettuola accoglienza dello svago, zeppo di mondanità. Siamo terrorizzati, forse per la nostra incallita doppiezza, forse perché assuefatti a omettere e raggirare, ma sempre dietro l’aureo paravento di una sensibilità capricciosa e nostalgica. Tremanti, senza dispense, davanti all’ipotesi della desolazione affettiva. Oggi ci muovevamo separati da una membrana di spazio: fuori, una striscia di massi vulcanici affollata da bagnanti feriali; dentro, il tuo fantasma scherzava nella medesima stanza dove ero già stata la tua infreddolita amante. Assorbita dalla domenica dei pranzi ansiosi, da mia madre - dopo tanti anni le ho offerto il braccio senza avvertire repulsione, capisci, si è appoggiata a me per restare in equilibrio sugli scogli - e ho percepito la sua fragilità, quel lieve sopravvenire di una nuova epoca, all’interno della quale i conflitti si smorzano, diventano di poco spessore, come le nostre diversità. Si nasce soli, si vive in solitudine, ma non è poi un così malvagio procedere. Se qualcuno ti osserva in profondità, oltre il limite del giardino, delle siepi civilizzate dal quotidiano, di là dalla paura della notte che avanza e ti trova accovacciata davanti alla tv. Parlami piano, adagio varca le diffidenze e la limitatezza di fissare il cielo dal fondo di un pozzo, circoscrivendolo all'interno di un angusto tondo azzurro; ma non dare assetto troppo stabile alle nostre vite, altrimenti non resterebbe più nulla da fare, niente per cui valga la pena di rilanciare l’intera posta sull’infido tavolo verde.
Al cambio di stagione, di schianto, qualcosa inaridisce e rantola. La flebile tela della sciagura annunciata, che tanto contenta il mio egotismo, bussa con violenza; l’abituale vocazione a rappresentare il mondo come se non vi risiedessi. L’accumulo forsennato di orme a testimonianza del passaggio, nello zaino grave del presente che si svuota di colpo. Settembre. La consorte esce di senno! Con un solo gesto ribalta il racconto, nullifica il miraggio di sollievo racchiuso in un calice di leggerezza, seppur colpevole. Quella, che tutto sa e tutto vede, dal bieco scranno di un ruolo difettoso e centrale, ci condanna e ti riassorbe, difettoso e connivente, in grembo, con l’esca della vostra reciproca colpevolezza. Si segrega nella sua stessa carne tumefatta. Tu sei la vanga, io il machete, il badile implacabile usato dal rito arcano che a tutti noi attribuisce un posto, impedendoci di avvicinare un plausibile motivo, per quel che siamo stati chiamati a fare. È apparso il delirio, me lo sento nello stomaco con vuoti di fiato; sto, fermissima, per non farmi trovare impreparata. Una ragnatela robusta ci cattura, laddove i ragni che Lei vede affollarsi sul pigiama blu, il vestito delle tenebre dentro la sua mente sconnessa, lambiscono anche me. Gira, gira la testa e i pensieri con essa, in un vorticoso dibattito interiore…
Chi dovrebbe essere rinchiuso? Noi? Lei…Per rimanere a galla è necessario riattaccare una ragione semplice a tutti gli intervalli che rapiniamo.
Ho il sospetto di vestire i panni del boia: per attributo la pretestuosa lacrima di coccodrillo, incollata al viso dagli sputi di una folla benpensante. Giuda che tradisce Cristo. L’Iscariota! Eletto altrettanto proditoriamente dalla storia come arma raffinata di un suicidio vicario. Il racconto si trascina a valle, lo spartito della luce blocca le pause, sollevando ombre gigantesche. Scacco al re, alla regina e ai fanti! Tutti i pezzi abbattuti…girogirotondo quanto è bello il mondo…cade giù la terra, tutti giù per terra…
Ma siamo seri! Abbiamo raccolto un minuto per volta, accantonando i progetti, le speranze, i pretesti, tutto per non soffocare un germoglio trapiantato in un campo che altri hanno già provato a dissodare, prima e meglio di noi, con mediocri risultati.
La scommessa è di ignorare le regole del gioco e alterare gli esiti: essere scacchiera e pedina mai. Desiderami ora, se credi, dopo non più, più tardi. Non ancora.
Strattona il buon senso, la prevedibilità delle relazioni dall'esito già designato, che, per sfinire, devono riconoscersi in un incipit ben preciso: una data, un’ora, la ricorrenza di un’insopportabile dolcezza, disegnata a matita sul palpito irripetibile.
Ci rincorriamo da sempre, intrecciando cene e chiacchiere, sesso e gelosie, confessioni e psicanalisi. Vado, il tempo mi prende a calci affinché io segua la costa frastagliata dell’esitazione. Ti lascio tutti i miei pezzi anatomici: cuore, reni, polmoni, tiroide e fegato dalla bilirubina alta. Non ti muovere. Fai che possa disperarmi da assente, nel chiostro nebbioso di un’altra latitudine.
Avremo in cambio specchi deformanti, nel fondo dei quali l’unico riflesso sarà il verde guasto di una palude limacciosa; via i porti! Via gli ormeggi! Faccia a faccia con la risata oscena dell’infanzia…Torneremo!
Questa fabula si trascrive e intanto si vive. Ti pronunci con sguardo lontano: sono l’uomo invisibile, mi vedi? Non esisto. Uno scricchiolio fa dubitare che il mobilio sia nuovo di zecca, mi s’annebbia il panorama di smisurati presenti. Ti bacio ancora, con un retrogusto aspro e chiedo da sordomuta: torneremo?

4 commenti:

Mario Govoni ha detto...

Ultimo, ma non meno importante, tra i racconti appartenenti al Concorso Letterario di Scripta, "Nostos" di Tania Giuga è la storia immaginifica di un amore clandestino.

Anonimo ha detto...

Mi è piaciuto, nel suo dipanarsi contorto. Nelle associazioni veloci, auliche, astratte, amare.
Una bella riflessione su un rapporto, sul senso di essere o non essere due.

Anche lo stile è particolare... Forse ancora acerbo in alcuni tratti... si avverte come una liricità trattenuta...

elio grasso ha detto...

le parole barbare hanno un senso e una solidità proprio quando vanno a sbattere contro i muri, almeno quanto questi due corpi sbattono l'uno contro l'altro. di clandestino qui dentro c'è solo chi manca, fuori da quella stanza fuori da quella pelle bifronte che si annusa e poi si scortica. se fosse solo il piacere a comandare, saremmo tutti santi, per anita - invece siamo spesso il boia e nemmeno senza il cappuccio. dentro questo racconto (racconto? a me sembra un reportage) mi consolo pensando che papa hemingway non sia vissuto invano. beviti ancora qualche daiquiri, anita, e vai vai...

-elio

elio grasso ha detto...

anita è tania, naturalmente - pardon.