giovedì 20 dicembre 2007

"Sette minuti a piedi" (Inedito di Paola Di Girolamo)

Anche stamattina decido di passare da Lino che, con sorriso sornione, mi saluta da dietro gli occhiali, stringendo gli occhi a formare una raggiera uniforme di rughe sottili.
Non c’è mattino che non trovi sua moglie Maria indaffarata a rivoltare sottosopra il piccolo bar. Con la pezza un po’ umida passa in volata su bottiglie, mensola, bancone, cassa. Drin. Puntualmente, Lino mi pone la stessa domanda: “L’acqua come la vuole?”.
“Una bottiglia da un litro e mezzo, liscia, fresca”.
“Grande?”. “Naturale o frizzante?”.

Annuisco a entrambe le frasi. Lino mette la bottiglia accanto alla cassa.
Deposito automaticamente un euro e venti sul piattino di vetro. Esco di corsa, alzando la mano per salutare.
Sulle mie spalle grava il peso del portatile. Mi aggiusto gli spallacci dello zaino, doppi e imbottiti. Sono ormai lontani i tempi dell’Invicta di tela leggera dove entravano a mala pena i quaderni piccoli.
Anche oggi mi siedo con riluttanza. Un nuovo giorno alla scrivania.
Da sei mesi ho cambiato città: vivo in periferia. Ma a poca distanza dal centro. Sono laureato, ma non credo che serva a molto specificarlo. A volte penso di omettere questo particolare dal mio CV. Quando ricordo con quanto orgoglio i miei genitori mi guardavano, il giorno della mia laurea, un anno fa, lo inserisco. Almeno per evitare che qualche sprovveduta segreteria contatti casa mia per chiedere se voglio accedere ai corsi di professionalizzazione, che la regione offre ai disoccupati con licenza media superiore.
È incredibile come le informazioni viaggino velocemente e senza filtro in tempi come questi, dove tutti si riempiono la bocca di termini come “privacy” e “diritti”.
Meno venti. Meno dieci alle diciotto.
In un ideale scanning dei discorsi dei politici in TV, negli ultimi dieci mesi, le tag più diffuse risulterebbero essere sicuramente “opportunità”, “giovani”, “futuro”, un po’ messe alla rinfusa e giocate a piacimento, con il solito cruccio in viso e lo sguardo contrito.
Sono stagista da una vita come i miei tre amici: tutti laureati, tutti fuori sede.
Li contatto velocemente per sapere come vanno le cose. Non sono online, tranne uno che anela: “Vacanze venite a me”. Degli altri mi faccio un’idea al volo quando leggo la frase accanto al nick: “Cos’altro mi deve capitare?” e “Ora estoy mejo”, chiedendomi perché mai uno debba ostinarsi a parlare l’itagnolo.
Lo chiamo. “Che succede?”.
“Mi danno duecentocinquanta euro questo mese”.
“Ammazza, non sarà mica impazzito il tuo capo?”.
“E te?”.
“Sono uscito ora, ci sei questo weekend? Pensavo di tornare a casa. Non vedo i miei da due settimane. Mia madre non fa che dirmi che sono una voce di spesa onnipresente nella sua lista mensile e che la chiamo solo per…Vabbè, la storia la conosci già. Scusa Carlo”.
“Ma figurati, ora ti saluto. Sono in autobus e il tipo accanto a me mi sta strattonando per sedersi”.
Sento un vociare in sottofondo. Carlo chiede scusa e si prende un “maleducato!”.
“Ok, a presto”.
“Ciao”.
Sto per fermarmi a far la spesa, ma mi rendo conto, quando sto per entrare, che il bancomat non mi permette di ritirare. La carta è smagnetizzata.
La tipa alla cassa mi guarda inarcando le sopracciglia. Arretro un po’. Poi fingo di ricordare un impegno, portando di scatto la mano sulla fronte. Troppo. E troppo meccanico il gesto. Finto. Esco con passo lungo, sotto lo sguardo insospettito della cassiera.
Passando di fronte al bar di Lino, intravedo sua moglie che armeggia con scopettone e mocio. Lino fuma una sigaretta sulla porta. Non lo saluto, pensando che non mi riconosca.
Mentre gli passo davanti mi segue con lo sguardo.
Un senso di insicurezza pervade il mio incedere lento. Metto male i piedi l’uno dopo l’altro, inciampo a volte nel mio passo. Caspita.
So di non avere l’aria di chi sa dove sta andando e soprattutto dove andrà. Mi concedo di credere che la vita sia stata ancora poco generosa con me per via dell’età. Trentadue anni. Non sono pochi. Non sono certo tanti, mi ripeto convinto tra me e me, mentre entro in casa.
Ines, studentessa Erasmus, ventiduenne, olandese, incrocia il mio sguardo: “Is everything OK?”.
“Sure”.
È intenta a sottolineare da un tomo alto dieci centimetri. Studia architettura. Sa già che diventerà un famoso architetto, come suo padre.
Sua madre, insegnante, gliel’ha descritto come un uomo “altruista, elegante” e “architetto”.
Ha una sua foto, di spalle, che conserva sempre in ogni libro che legge. Alla fine di ogni capitolo la sposta, consumandola nel tempo con le dita sicure e veloci.
Sono ancora vestito mentre cerco di addormentarmi, ma la voce di Janis Joplin mi rimbomba negli orecchi: “Oh, lord, want you buy me a Mercedes Benz…”.
Sento bussare. È Ines, che non riesce a dormire. Ha sentito sua madre per telefono. Verrà a trovarla presto in Italia e lei non sta nella pelle. È talmente entusiasta che per la quinta volta mi ripete: “Mum’s coming!”.
Mi ha contagiato con la sua gioia e, guardandola dritto negli occhi, continuo a sorriderle per un tempo infinito.
Mi addormento così. Sono contento per lei. In sogno le corro incontro e l’abbraccio, cingendola con le spalle forti.
Mi sveglio al mattino con la sensazione di aver corso troppo. Mi specchio e noto che le spalle magre mi fanno sembrare ridicolo al cospetto del ragazzino del primo piano: gioca a calcio da quando ne aveva cinque. Ora ne ha sedici e spero vivamente di aver cambiato casa, prima che ne compia venti.
Incrocio velocemente Ines in corridoio mentre mi accingo a far colazione. Mi saluta e, con voce squillante, urla che Matteo e Giovanni sono ancora a letto. Esce sbattendo la porta: è euforica.
Temo per un attimo, ma per fortuna nessuno si sveglia. Quei due si alzeranno che il sole sarà già alto. Forse persino al tramonto.
Giovanni è studente di lettere. Fuori corso. Non so precisamente da quando. Ricordo che, quando mi iscrissi all’università, Giovanni era già qui da un anno o due.
Matteo lavora di notte. Fa il barman per pagarsi gli studi di grafica. Inizia alle sei del pomeriggio per mettere in ordine i tavoli e torna a casa ogni notte alle tre, per cui non è che gli rimanga molto tempo per fare altro, escludendo le ore di sonno.
Mi rendo conto di aver fatto tardi e mi infilo in ascensore mentre finisco di inghiottire un plumcake. Passo da Lino ma tiro dritto. Non ho molto tempo da perdere.
In mattinata il capo mi annuncia, con pochissimo preavviso, che non può tenermi ancora. Neanche come stagista. Non sarebbe giusto.
“Giusto?”.
“Si, hai trentadue anni. Non possiamo bloccarti in una realtà in cui non c’è possibilità di crescita per te”.
“Ma, perché?”.
“Abbiamo bisogno di un professionista meno, come dire, si, forse meno preparato professionalmente. Più giovane. Con questo senza dire che tu sia…. Insomma. No di certo.”.
Mi allontano dall’ufficio con la sensazione di essere sceso bruscamente da un treno in corsa.
Non riesco ancora a farmene una ragione. Ho raggiunto dei discreti risultati a lavoro e nessuno si era mai lamentato di me prima d’ora. Deve esserci stato un qualche complotto interno, di cui non mi sono mai reso conto. Forse la segretaria, Angela. No, credo si chiami Anna. Lei sicuramente ha a che fare con questa storia. Domani l’aspetto sotto l’ufficio. All’uscita la blocco e le chiedo spiegazioni. Forse è per la richiesta di quel cliente rimasta sulla mia scrivania per mesi.
Non riesco a crederci.
“Carlo, pronto. Carlo, mi hanno mandato via dall’ufficio. Non ci credo ancora. No, nulla di così eclatante. Semplicemente non faccio più al caso loro”. “Si, si. Va bene. A dopo, allora. Chiamami, ok?”.
Carlo non mi chiama in serata. Neanche il giorno dopo. Non risponde al telefono.
Chiamo sua madre che mi conferma che è in casa. Me lo passa. Una voce bassa risponde dall’altra parte.
Quasi non sento ciò che dice. “Cosa?”. “Carlo! Chi è che…”.
Carlo abbassa il ricevitore con un tonfo sordo.
Non è possibile.
La ragazza di Carlo è stata scippata. Cadendo dalla bici, ha sentito una grossa fitta al basso ventre. Ha fatto dei controlli in ospedale. Era incinta.
Carlo è distrutto.
Mi sento male. Mi si annebbia la vista.
Torno a casa e passando mi fermo da Lino. Prova ad anticiparmi e apre lo sportello con le bottiglie di acqua, ma in un soffio gli chiedo un pacco di Pall Mall. Rosse.
Mi porge il pacchetto mentre mi scruta da dietro le lenti con gli occhi azzurri inumiditi, velati per l’avanzare dell’età. I baffi si piegano un po’ in un sorriso amichevole e disponibile.
Io non sono in vena di chiacchiere. Non stasera. Mormoro un buonasera veloce e lascio il locale prima che scenda il buio.
Non mi sono reso conto di aver girovagato per ore dopo la telefonata con Carlo. Ho camminato lungo il fiume che attraversa placidamente la città: Firenze si è svuotata in questi giorni di fine giugno. Nei weekend file di macchine invadono i viali per uscire dalla città.
Arrivo a casa e trovo Ines seduta sul divano, con il suo libro sulle gambe. Si gira e mi sorride. Gli occhi grandi le si illuminano.
Mi chiudo in camera per un po’. Ho molte cose da pensare. Tante questioni su cui riflettere. Ho tanto tempo, d’altronde domani è sabato. In fondo non ho più un lavoro e sono libero anche lunedì.
Mi viene in mente quando da bambino mi sedevo sulle gambe di mio nonno. Mangiavo con lui la sua minestra. In realtà, mangiavo tutta la sua minestra e la nonna era costretta a mettere di nuovo il latte sul fuoco con il pane a mollo.
Ora mia nonna vive da sola e anche noi nipoti andiamo a trovarla pochissimo.
Il sabato passa velocemente e apro gli occhi che è già pomeriggio inoltrato. Sento delle voci provenire dalla cucina. La madre di Ines è arrivata. Una donna sulla cinquantina, di bell’aspetto, molto signorile. Mi porge il caffé. Ines è rannicchiata sul divano ed è molto pensierosa.
Torno in camera mia per lasciare madre e figlia libere di parlare. Mi addormento di nuovo, forse per non pensare.
In una sorta di stato catatonico, mi risveglio che è già sera inoltrata.
Non so più chi sono, cosa faccio in una città che non mi appartiene e a cui non appartengo. Non ho nessuno su cui contare e nessuno che conti su di me.
Intravedo Ines nella sua stanza. È china sul tavolo. Per un attimo penso di non disturbarla, ma non vedo più sua madre.
Ines mi guarda un po’ sorpresa. Mi sembra stanca, le occhiaie di chi non dorme da tempo.
Le chiedo dove sia sua madre.
“E’ partita”.
Mi fissa per un lungo attimo e mi sembra di perdermi nei suoi occhi. Non riesco a cogliere quella nuova luce, né il senso del vuoto che mi pervade.
Mi porge la foto di suo padre. Ora è un collage disordinato di minuscoli pezzettini attaccati tra loro con il nastro adesivo. Le chiedo perché l’abbia strappata.
Mi guarda ancora a lungo. Poi sospira e mi racconta che suo padre non era un architetto. Non era elegante, non era signorile. Suo padre, che non ha mai conosciuto, non ha mai vissuto con la mamma e non l’ha mai amata.
Non capisco ciò che dice.
“The man who gave me birth… He has met her on a street during the night. He…”. L’abbraccio forte. Mi chiedo perché ora. Perché a lei.
Perché a Carlo. Perché a me.
Non ho la forza di sopportare altro.

Più tardi scendo per una birra. Il bar di Lino è ancora aperto. Mi siedo. Sorseggio la mia birra con calma. Non ho fretta e Lino chiude molto tardi.
Mi chiedo come faccia a reggere tante ore in piedi alla sua età.
Scoppio in lacrime. Sgorgano copiosamente dai miei occhi.
Lino mi porge un fazzoletto bianco di stoffa e si siede accanto a me. Resta con me per un tempo interminabile. Non parla, non mi forza a farlo.
Inizio io. So di non potermi trattenere. Lino mi ascolta con pazienza per ore, di tanto in tanto mi porge il fazzoletto. Parlo a testa bassa. Provo un po’ di vergogna. Ricordo a me stesso di avere trentadue anni. Non posso piangere. Faccio per alzarmi ma Lino mi poggia il suo braccio scarno sulla mano. Ha gli occhi velati come di chi ha pianto.
Il mattino dopo passo da Lino. Dalla vetrata osservo Maria che accarezza il bancone con un panno umido.
Mentre entro nel bar, Lino alza lo sguardo e mi saluta con un ampio sorriso: le rughe gli incorniciano gli occhi come un girasole appena schiuso.

2 commenti:

Mario Govoni ha detto...

"Sette minuti a piedi" è un inedito di Paola, inviato per il concorso di Scripta.
Racconto di grande attualità, tra precari, stagisti e lavoratori a progetto, mi ricorda una mia disavventura lavorativa: arrivato a Napoli da poco, e senza lavoro, un "amico" mi prese a lavorare nella sua azienda. Facevo un po' di tutto, fattorino, autista, sistemista, impiegato d'ordine e di concetto, per la somma di 400 euro al mese. Contratto di tre mesi rinnovabile. Il giorno della scadenza mi fu comunicato che, siccome valevo molto di più dei soldi che mi davano e non potevano aumentarmi il compenso, non mi avrebbero rinnovato il contratto ...

Paola, il racconto è carino, scorrevole, ma ci sono alcune incongruenze ... come si può rispondere affermativamente alla domanda "Naturale o frizzante?", e poi se tentando di prelevare il protagonista si è accorto che il Bancomat era smagnetizzato, che ci faceva davanti alla cassiera?

Anonimo ha detto...

Ciao!
A me il racconto è piaciuto assai: scorre bene, è ben scritto.
E non noto le incongruenze che MaGo sottolinea: cioè, ci sono, ma mi pare che diano tono allo smarrimento del protagonista, al suo essere un po' per aria prima di tonfare per terra.