martedì 24 marzo 2009

Villa San Martino (di Mario Govoni)

Era il 26 giugno e l'aria del primo pomeriggio era calda; entrai nella biblioteca di villa San Martino e lo vidi mentre, così basso di statura, cercava di riporre un libro su uno degli scaffali più alti della libreria.
“Datemi - dissi - lo sistemo io, che sono più grande di voi”.
Mi guardo e sorrise, un lampo divertito negli occhi: “Tuttalpiù sei più alto di me - rispose - ma certamente non più grande” mentre mi porgeva una copia delle “Vite parallele” di Plutarco.
Mentre riponevo il volume azzardai: “Certo che di condottieri come voi ce ne sono stati pochi, forse solo il Macedone”.
“Come tutti vuoi limitare la mia grandezza alle mie vittorie militari. Ricordati che la gloria delle armi è effimera, mentre solo quella delle opere è duratura. Mi hanno chiamato il Macellaio d'Europa perché ho ricoperto le terre di questo continente di morti, sono stato odiato da altri imperatori, sicuramente più piccoli e meschini di me, e livorosi perché li ho battuti cento volte. Ad Austerlitz, in quattro ore, ho messo in fuga un esercito di 100.000 uomini, a Jena e Friedland ho distrutto i sogni dei Prussiani. Sì, è vero, sono stato un grande generale, forse il più grande, ma le mie opere più memorabili le ho fatte lontano dall'odore della polvere da sparo”.
E tacque, pensoso, e la sua vita sembrò scorrergli in un attimo davanti agli occhi.
“Sulla punta delle mie baionette ho portato in tutta Europa delle leggi degne di questo nome e ho infranto i privilegi dei nobili e dei feudatari. Dove regnavano parrucche incipriate ho portato idee, idee nuove di eguaglianza e di libertà. È ricco chi merita, non chi ha ereditato un titolo e delle rendite. Quando finalmente mi hanno sconfitto, pazzo che sono stato a iniziare un'impresa più grande di me, che hanno fatto? Mi hanno spedito qua, convinti di avermi dato un giocattolo con cui trastullarmi, la caricatura di un regno ... teniamolo là, è un'isola, l'Orco prigioniero non fa più paura” e nuovamente tacque.
Un sogghigno lo scosse per un attimo: “Inetti - riprese quasi parlando tra sé - non hanno capito che nulla sarà più come prima, che i miei soldati, la migliore gioventù d'Europa, tornati a casa non avevano nello zaino solo la disperazione della sconfitta, ma anche delle idee, e che idee. Idioti! Un'idea è più letale di una pallottola. Loro pensano di avermi sconfitto, ma hanno perso. Io sono il vero vincitore!” e in quel momento il piccolo uomo mi sembrò un titano.
Lo guardavo e tacevo, una parola sarebbe sembrata di troppo in quel momento. Fuori le api, le stesse che apparivano nel suo stemma, ronzavano instancabili, volando di fiore in fiore; di fronte a me avevo l'imperatore di tutte le api, l'uomo che aveva provocato il crollo di un mondo per ricostruirne uno, migliore, dalle sue ceneri, instancabile, operoso, crudele, sì, ma di una crudele necessità.
Il silenzio si spezzò: “La loro vendetta - proseguì, e il titano tornò ad essere il piccolo uomo che era - si è consumata nel momento in cui hanno mandato mio figlio in esilio a Vienna. Povero aquilotto, chissà se mai lo rivedrò. Una cosa è certa: non mi hanno seppellito su quest'isola, perché io, qua, non ci morirò”.
A questo punto mi diede le spalle e uscì dalla biblioteca, solo, con la grandezza della sua solitudine a incurvargli appena le spalle.
Io c'ero, quel 26 giugno a Villa San Martino ... io c'ero.