venerdì 7 marzo 2014
La grande bellezza
Non ho letto le critiche e le recensioni al momento della sua uscita, né l'ho fatto adesso, dopo l'assegnazione dell'Oscar perché non volevo farmi influenzare: mi sono, però, imbattuto nelle impressioni di molti che su Facebook ne parlavano quasi esclusivamente in termini negativi (pur confessando di averne visto solo qualche minuto, e questo mi conforta nell'idea che il social network in questione sia lo sfiatatoio di troppi neuroni in libertà, il succedaneo di quelle che un tempo si etichettavano genericamente come “chiacchiere da bar”). Credo che su “La grande bellezza” siano state scritte molte sciocchezze, e non solo dai frequentatori del social network più diffuso al mondo, ma anche da illustri critici cinematografici; perché questo film è stato stroncato in maniera così apodittica? per ideologia, perché Sorrentino non mi sembra essere un mostro di simpatia, perché semplicemente il film non è piaciuto? tutte ipotesi valide, ma anche perché, forse, non è stato capito e ne è stata data una lettura troppo superficiale. Non pretendo di essere il depositario della verità, né l'unico interprete del genio del Maestro, ma probabilmente valeva la pena di farne un'analisi un po' più profonda.
Certo, fare un film su Roma significa per forza di cose confrontarsi con Federico Fellini e la sua “La dolce vita”, e in un paese come l'Italia, dove si diventa geni solo da morti, questo è un peccato mortale, un'eresia. “La grande bellezza” di felliniano ha solo la città dove è ambientata, e basta: “La dolce vita” è un film neorealista, dove il protagonista è un giornalista, (anche Jep Gambardella scrive per un giornale, ma per favore fermiamo qui le analogie, perché i due personaggi sono assolutamente diversi) che vive e si muove nell'Italia degli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso, periodo formidabile da un punto di vista economico, politico, culturale e artistico, contrariamente alla contemporaneità nella quale è ambientato il film di Sorrentino. Diciamolo tra parentesi, perché oggi parlar male di Fellini non si può, quando “La dolce vita” uscì fu pesantemente stroncata, come quasi tutti i film del Maestro: evidentemente i critici nascono miopi per diventare presbiti con il passare del tempo. Secondo me più centrato potrebbe essere il paragone tra “La grande bellezza” e “Roma”, il secondo film che Fellini dedicò alla Città Eterna: qui siamo a un livello più grottesco (si pensi alla sfilata di abiti talari, o a certi personaggi ridotti allo stato di mascheroni), più satirico, più truculento. “La grande bellezza”, però, non è un film realista né tanto meno satirico, di onirico per me non ha quasi niente (assegniamo alla categoria solo qualche scena sospesa tra realtà e fantasia) e, forse, nemmeno di grottesco: è un film decadente, quasi gotico, pur sotto una patina, neanche tanto spessa, di leggerezza. Fellini ha ispirato Sorrentino? Sicuramente sì. Sorrentino ha copiato Fellini? Sicuramente no.
Ho letto critiche di tutti i generi, a partire da quella che è un film senza una trama. Non sono assolutamente d'accordo: il film racconta una storia, quella dell'amore incompiuto e mai dimenticato di Jep per Elisa, consumato più di quarant'anni prima e finito con grande rammarico del protagonista. La vicenda, anche se esplicitamente citata solo a tratti (il soffitto che diventa il mare dell'Isola del Giglio, la foto di Elisa a casa del vedovo, il racconto spezzato che Jep fa a Ramona sono quelli che immediatamente mi vengono alla mente, ma ce ne sono anche altri) è sottesa a tutto il film, tanto che, in qualche modo, lo conclude: Jep torna al Giglio e il ricordo di quell'amore lo spinge a iniziare il suo secondo romanzo, quarant'anni dopo quel “L'apparato umano” che gli ha dato grande successo e lo ha portato a Roma, dove è diventato il re della vita mondana. Altra accusa riguarda il montaggio, spezzettato, non consequenziale: anche qui avrei da dire qualcosa. Il montaggio ha un suo stile, una sua linearità: non descrive una vicenda, ma la vita di tutti i giorni di Jep, una vita fatta di episodi che, comunque, lo porteranno inesorabilmente a quell'Isola del Giglio dove, in qualche modo, è iniziata la storia. La festa, eccessiva e un po' cafona, per il suo sessantacinquesimo compleanno, le notti perse in chiacchiere più o meno futili, gli altri eventi mondani, gli incontri, persino i funerali lo preparano all'epilogo del film: la scrittura del suo secondo romanzo. In base a questo principio anche i cinepanettoni sono film senza trama e senza montaggio, fatti di una sequenza di gag legate tra loro da un esile filo, tuttavia nessuno si sogna di farlo rilevare, anzi il loro successo sta proprio in questo.
La critica più profonda che ho letto sul web, però, è: “i dialoghi fanno cagare”. Vorrei fare allo sconosciuto esegeta intestinale una banale domanda: trascorre forse le sue giornate parlando di critica della ragion pura o di superomismo nietzschiano? Ogni volta che apre bocca distilla perle di saggezza e pasticche di verità? La vita reale, quella di tutti i giorni, è fatta proprio da dialoghi come quelli de “La grande bellezza”: quali sono i nostri argomenti alle feste o nelle serate tra amici? Calcio, qualche vanteria più o meno giustificata, politica, pettegolezzi, la nostra vita sentimentale e sessuale. I nostri dialoghi sono, inconsapevolmente, sorrentiniani, ci piaccia o no, esattamente come quelli della corte dei miracoli che circonda Jep.
Vogliamo parlarne di questo microcosmo, di questo generone romano contemporaneo che circonda il protagonista? Tanti sono gli esemplari di questo bestiario umano, icone di un mondo vacuo e superficiale: l'ex soubrette sfatta e cocainomane, l'artista che prende a testate il muro ma non sa definire le “vibrazioni”, il cardinale che preferisce la cucina alla spiritualità, l'intellettuale che vanta la sua perfezione e la sua superiorità, i genitori che sfruttano la figlia facendole imbrattare tele in pubblico, la ricca borghese con figlio pazzo, la suora centenaria che fa della povertà e dell'ascesi le sue ragioni di vita e altri ancora. È un caleidoscopio di maschere ruotanti attorno a Jep Gambardella, che non dà mai l'impressione di mescolarsi a loro, quasi olio sull'acqua, osservatore disincantato, ironico e un po' cinico. Sono figure mediocremente decadenti alle quali mancano la sinistra dissolutezza di un Dorian Gray, la follia distruttiva di un Achab, la tormentata angoscia di un Raskol'nikov: di fronte a loro un vizioso bulletto di campagna come Don Rodrigo fa la figura del gigante.
Due sono i personaggi che in qualche modo si staccano dallo sfondo: Romano, velleitario autore teatrale, e Ramona, spogliarellista figlia di un antico amico del protagonista; non è un caso che con loro Jep intrattenga un rapporto più profondo, di affetto. E qui entra in gioco il secondo grande tema del film: la morte. Ramona, dignitosa e dolente, mai decadente o volgare, nemmeno quando a una festa si presenta con un abito nude look (suscitando i commenti dei presenti su quanto sia caduto in basso con lei) con la quale vive una relazione innocente, fatta non di sesso ma di “volerse bene”, muore per un male incurabile. Anche Romano se ne va, ed è come se morisse: dopo esser riuscito finalmente a portare sul palcoscenico una sua opera, se ne torna al paesello natio, deluso da quella Roma che in tanti anni non gli ha dato nulla.
In almeno due occasioni Jep Gambardella dice che Flaubert avrebbe voluto scrivere un romanzo sul nulla e non ci è riuscito (“Ci posso forse riuscire io?”): ecco, in fondo “La grande bellezza” è proprio questo, un film sul nulla e chi lo critica, forse, ne ha orrore perché vi si vede riflesso.
Mario Govoni
lunedì 9 dicembre 2013
La pazza della porta accanto
- Lei vuole conoscermi?Comincia con questo scambio di battute il documentario “La pazza della porta accanto” della regista Antonietta De Lillo, intervista ad Alda Merini. È il 1995 e due donne, la De Lillo, appunto, e l'attrice Licia Maglietta, vogliono incontrare la poetessa: dopo numerosi tentativi andati a vuoto decidono di partire all'avventura e vanno a Milano: siccome la fortuna aiuta gli audaci, Alda Merini si concede loro immediatamente. Iniziano così due giorni di lavoro con due macchine da ripresa, una Betamax puntata a mezzo busto sulla poetessa, seduta al tavolo di casa sua, e una Super 8 che ne inquadra particolari del viso. Dirà la De Lillo, in occasione della prima cinematografica del documentario alla XXXI edizione del Torino Film Festival, che si è trattato di un lavoro molto difficile e duro, perché hanno girato per otto ore al giorno, immobili e in piedi per paura di spostare qualcosa nel disordine della casa, a rischio che poi la Merini non ritrovasse le sue cose. La casa, in realtà, è visibilmente non amata dalla poetessa che dice:
- Sì, io la vorrei conoscere.
- Mah, diciamo che i poeti sono inconoscibili.
- Perché la casa in disordine? Perché, perché forse nessuno l'ha amata veramente. Bisogna amarle le case, bisogna. Perché forse non ci sono figli. Sa cosa vuol dire una tavola nuda, dove uno vive solo? Perché un conto è uno che vive solo, ma un conto è uno che ha i figli e poi non li vede più, e quello li cercherà dappertutto, come le bestie. Capisce? E allora non sente la necessità di pulire i piatti, di lavare... perché non c'è un commensale. Questo è il significato del disordine, non avere più un commensale a tavola.Racconta anche di aver sorpreso un ladro una volta, e che anche questo fatto ha contribuito a farla disamorare.
Al termine delle riprese la regista ha quindi in mano una grande quantità di girato e ne ricava un primo documentario, “Ogni sedia ha il suo rumore”, della durata di 27 minuti, nel quale alle parole della poetessa si mescolano sue poesie recitate da Lucia Maglietta.
Passano diciotto anni, la Merini nel frattempo è scomparsa nel 2009, e Antonietta De Lillo decide di rimettere mano a tutto quel girato per ricavarne un nuovo documentario: recupera anche il Super 8, scartato nel primo film perché ritenuto di qualità insufficiente, e ne fa un uso assolutamente fondamentale, del quale parlerò dopo, realizzando così un'opera nuova, affascinante, vitale: la Merini è ripresa nel tinello di casa sua, immersa nel suo caos, e si racconta. È un fiume in piena, un racconto a volte spezzato, a volte ipnotico, labirintico, dove parla di sé, delle sue figlie e del fatto che le sono state tolte, del manicomio e dell'elettroshock, del dolore, dei suoi uomini, dell'amore, del delirio, della religione.
In tutta quest'orgia narrativa la presenza dell'intervistatrice è solo intuita: nell'affermazione iniziale “Sì, io la vorrei conoscere”, e verso la fine del documentario quando la poetessa si rivolge a lei chiamandola “signorina”. È una presenza comunque importante, stimolo al racconto ma allo stesso tempo boa di segnalazione nel mare delle parole di Alda Merini; non ruba mai la scena, esattamente come dovrebbe fare ogni bravo intervistatore: la protagonista è la poetessa, chi le è di fronte è soltanto uno strumento, un intermediario tra lei e il mondo.
Assolutamente affascinante per lo spettatore è vedere questa donna anziana, sfiorita, vestita con un certo decoro piccolo borghese (l'immancabile filo di perle, la camicetta bianca, il twin set beige), che fuma, gioca col pacchetto di sigarette o l'accendino, e racconta se stessa e la sua arte, dicendo cose mai banali; l'occhio cade sulle mani e sulle unghie, laccate con spezzoni di uno smalto steso chissà quando: il genio si confronta con l'eternità e certi piccoli dettagli si dimenticano. Probabilmente nemmeno in gioventù fu quello che si dice una bella donna, l'iconografia che di lei si ha la mostra in età avanzata, ma seppe innamorarsi e far innamorare tanti uomini, e di grande spessore, a riprova che il fascino sta in un bel corpo ma anche, e soprattutto, in una bella anima.
L'anima, ecco, parliamo dell'anima della Merini e del girato di quella negletta Super 8 che la De Lillo ha ritenuto, saggiamente, di inserire in questo nuovo documentario: la macchina da ripresa è stabilmente puntata sugli occhi della poetessa in un primissimo piano. Se dovessi dire che ne ho notato il colore mentirei: due occhi vivi, straordinari, profondi, di chi ha visto tante, troppe cose e molte brutte. Si dice che gli occhi siano lo specchio dell'anima e io in quegli occhi ho visto l'anima della Merini ed era bella.
Ai mezzi busti e ai primissimi piani degli occhi il montaggio alterna, quasi a voler dare fiato allo spettatore, riprese girate nella zona dei Navigli, dove la Merini viveva, immagini di persone, animali, cose e case, che appaiono negli squarci di un velo nero, a dare un'intensità drammatica anche a queste sequenze.
“La pazza della porta accanto” è un documentario interessante, dove si confrontano l'intervistata e la regista a generare una prova autoriale notevole, dove la De Lillo ha cercato di farsi interprete oggettiva e spassionata del pensiero di Alda Merini, un tramite invisibile ma ben presente nella cura delle inquadrature e nella scrittura del montato. Da citare anche l'accuratezza e la pulizia del montaggio, realizzato da Valeria Sapienza, l'organizzazione di Alice Mariani e la postproduzione, curata da Renato Lambiase: un film, e un documentario lo è, è un'opera corale realizzata con il contributo di tutti.
E non c'è modo migliore per chiudere che usare le ultime parole che la poetessa dice nel documentario:
- Ci sono donne che sono state votate al sapere, alla poesia per tutta una vita sacrificando, appunto, dei piaceri effimeri come la bella casa, il bell'amore, il Ganimede, la bella mangiata, la bella bevuta, e però ci sono dei deliri di lettura che veramente portano a cose in alto, che valgono proprio, come potrei dire, un orgasmo fisico, e vanno oltre. Non li ha mai provati? Non li ha mai provati? Eh, sono da provare! Vero? Sono da provare.Alda Merini di deliri e di orgasmi da lettura e da scrittura ne deve aver provati veramente tanti: si capisce dall'aria quasi complice che sembra mettere nel pronunciare queste parole.
Mario Govoni
domenica 11 agosto 2013
Temporale
Dopo giorni di afa e gran sole, il cielo si era annuvolato e un venticello fresco portava qua e là il frinire delle cicale. L'ora era sospesa, inerte tra il caldo che resisteva e la promessa di un temporale.
Cadde qualche goccia di pioggia, acqua che non leva sete, a liberare il caldo rinchiuso nei muri e nel terreno. Uno squarcio, sempre più ampio, di cielo azzurro faceva capire che, almeno nell'immediato, la promessa non sarebbe stata mantenuta. Il temporale, semplicemente, non era ancora maturo. Le cicale si erano ammutolite: dopotutto, la temperatura si era abbassata o forse percepivano qualcosa che sfuggiva ai sensi umani.
Uno sguardo verso settentrione mostrava uno strato compatto di nuvole, a rinnovare la speranza della pioggia e del fresco che avrebbe portato. L'orizzonte appariva velato da un sudario di caldo umido. L'attesa continuava.
Seduto sotto il portico della casa aspettava che succedesse qualcosa; la sensazione di caldo era opprimente. Sentiva le gocce di sudore colargli lungo i fianchi, mentre la camicia era appiccicata alla schiena. Il torpore a volte si impadroniva di lui, facendogli crollare la testa sul petto: il brusco movimento lo risvegliava di soprassalto, negandogli anche quel minimo di sollievo che quel sonno letargico gli avrebbe concesso. Il cielo, nel frattempo, si era fatto greve d'acqua e nero anche se, laggiù, a occidente, da sotto le nubi, un mezzo sole al tramonto tingeva di arancione uno spicchio di cielo e regalava una lama di luce a illuminare la campagna.
Era ormai il crepuscolo quando, quasi inattesa, iniziò a cadere qualche goccia, pesante, grossa, che colpiva il terreno polveroso con un suono simile a quello di uno schiaffo attutito; da qualche parte giungeva l'alito della pioggia imminente, con l'odore della terra bagnata, mentre le gocce cadevano sempre più frequenti. D'un tratto l'inconfondibile, sordo brontolio di un tuono in lontananza: finalmente il temporale era arrivato e avrebbe portato un po' di refrigerio. Quella notte avrebbe fatto fresco. Le prime gocce sparse erano diventate un acquazzone che aumentava di intensità, fitto, sempre più fitto fino a rendere indistinti i contorni: gli alberi al di là del prato, poche decine di metri, erano quasi invisibili.
Un secco, crepitante latrato lo fece trasalire: “Questo è caduto vicino”, pensò. Si alzò dalla poltrona in vimini e, incurante, uscì sotto la pioggia, trovandosi inzuppato dopo pochi istanti: allargò le braccia, alzò la testa verso il cielo e, lentamente, iniziò a girare su se stesso. Si sentiva bene, il fresco portato dal temporale lo aveva rinvigorito. Un po' dovunque vedeva fulmini nel buio incalzante della sera; “Là, quello, chissà dove è caduto” pensava mentre valutava mentalmente il passare del tempo. “Dieci secondi, – calcolò – tre, forse quattro chilometri”. Un botto simile a quello di un cannone antiaereo da 88 (quante volte lo aveva sentito durante la guerra) gli fece capire che il fulmine, questa volta, era caduto a meno di un chilometro: forse non era un'idea così buona quella di restare a godersi il temporale all'aperto; con un sospiro si diresse sotto il portico, levò il cuscino dalla poltrona per non bagnarlo e si mise a sedere. Tolse il pacchetto di sigarette dal taschino della camicia e lo trovò completamente zuppo, inutilizzabile; “Pazienza, – pensò con un lieve sorriso – questa sera non si fuma” e lo buttò sul tavolino a poca distanza.
La violenza del temporale stava aumentando: nel buio della sera vedeva lampi cadere ovunque, mentre la pioggia scrosciava, accompagnata dal fragore dei tuoni. Poteva essere passata mezz'ora e un senso di lieve inquietudine si stava impadronendo di lui: i temporali lo avevano spaventato fin da bambino e se aveva accolto questo quasi con gioia era perché la sofferenza provocata dalla calura glielo aveva fatto desiderare in modo quasi spasmodico. Passata l'ebbrezza, le sue antiche paure stavano ricominciando a farsi sentire e non poteva nemmeno contare sul piacere di una sigaretta.
Quando Dio volle la pioggia cambiò divenendo meno intensa e con gocce più piccole; anche i tuoni erano diminuiti di numero. Il temporale aveva scaricato la sua forza e si stava placando.
Rientrò in casa e si diresse verso la sua camera: sentiva il bisogno di togliersi i vestiti zuppi d'acqua, di asciugarsi e di mettersi qualcosa di asciutto. “Sì, – disse tra sé e sé – stanotte potrò dormire”.
Mario Govoni