giovedì 27 dicembre 2007

Un macaco, anzi due ... (inedito di Rosalba Montani)

Andrea quel giorno era distratto.
Non riusciva a concentrarsi, più cercava di tornare sui suoi appunti, più le parole si appannavano, sottraendosi nel senso alla sua vista. Non era proprio sicuro che dipendesse da Caterina, ma certo una parte di responsabilità, lei l’aveva. Continuava a rimuginarci. Chissà che aveva voluto dire. Era sempre così vaga, piena di sottintesi. Quell’aria da eterna enigmatica. Che poi secondo lui, magari ci faceva. Altro che mistero, due pose, giusto per un idiota come lui.
Forse, più che Caterina, era questo avvertirsi ridicolo ai suoi occhi a risuonargli dentro, incessante.
- Basta!- Si alzò di scatto.

Meglio uscire visto che il diritto romano, almeno per oggi, viaggiava su binari inutilmente paralleli.
L’aria frizzante, fuori. Il piacere delle folate gelide sul viso, carezze ruvide di mani immateriali.
Si sentì meglio. Intorno il caos natalizio, con quell’aria similoro, rosso lacca, verde pino. Le vetrine sembravano pronte per lo show del sabato sera. Inutilmente luccicanti di ricchi premi e cotillon.
Natale lo lasciava indifferente, le solite cose, sempre. Il buono di certe feste è che vengono una volta l’anno. Magari sarebbe stato meglio ogni tre o cinque. Un po’ di neve non ci sarebbe stata male, ma anche questo non dipendeva da lui.
Ma ci sarà qualcosa che dipende da me? Meglio di no, che allora è sicuro che non funzionerà. Ecco, anche uscire è stata una stronzata.
Quello che lo infastidiva di più era quell’andirivieni incessante di gente. Lo urtavano malamente, quasi infastiditi dalla sua presenza. Chissà perché era sempre nel senso opposto a quello di marcia. Non che lo fosse, almeno a lui non sembrava, ma negli sguardi incrociati per caso ne avvertiva come il muto rimprovero. Tutti così determinati, sicuri. A un passo dalla meta. Ma quale meta?
Me ne torno a casa, meglio…
Quasi inavvertitamente si avviò verso i giardini. Giardini è una parola grossa, in effetti, per quello spazio strangolato tra il cemento e l’asfalto, due tigli e quattro cespugli d’oleandri, uno spiazzo di terra battuta e qualche esile ciuffo di verde, come su di un lucido cranio i capelli fieramente sopravvissuti a tempeste di testosterone. Una panchina sbilenca, con le assi di legno sconnesse. C’è sempre qualcuno che si diverte a ridurle così. Andrea si accomodò, quel luogo aveva la desolazione giusta, per starci dentro comodo, oggi.
Toh! E questo cos’è? L’avranno dimenticato.
Rigirò il libro tra le mani. “I due macachi”. Il titolo non gli sembrò un granché. Gli tornò in mente quella vecchia storiella del discepolo che vuole diventare saggio e per illuminarsi cerca di non pensare alle scimmie, restandone ossessionato.
Il macaco è una scimmia, no? Se almeno riuscissi a non pensare a Caterina. Ma deve essere una scimmia anche lei, visto che dal mio cervello malato non vuole andare via.
Un libro sottile, un centinaio di pagine, non di più. Raccolta di racconti, una copertina marrone stinto, con disegni geometrici vagamente floreali, come il velluto di certi divani o la tappezzeria di un tempo andato. C’era una dedica, sulla pagina bianca interna, una grafia sottile, incerta e tondeggiante, sicuramente una mano femminile. Due sillabe: Per te. E sotto un ghirigoro incomprensibile dell’autrice, che resterà ignota ai più. Nella quarta di copertina tanti nomi, in rapida successione di note biografiche abbozzate, ma ad Andrea non dicevano nulla, esordienti, pensò.
A ridosso della panchina, il lampione spandeva un chiarore giallastro vagamente retrò, contendendosi il buio col neon azzurrato e spettrale dell’insegna vicina. In quel chiarore innaturalmente neutrale, Andrea s’addentrò nel libro. Il ritmo della lettura era scandito, in lampi dorati e rossastri, dall’intermittenza delle luci natalizie della vetrina due metri più in là.
L’introduzione lo sorprese. Assenzio, l’Ottocento parigino e il "magasin de nouveautés" in Place de Saint Germain des Prés. Si sentì un po’ sciocco, con quella storia delle scimmie zen.
Le pagine erano di quella carta leggermente ruvida dai bordi irregolari, un po’ spessa, che lascia sotto i polpastrelli un che di farinoso. Alzò il libro e l’annusò. Sapeva di buono, come di pane stagionato in una vecchia madia. Ogni libro ha un suo odore caratteristico, un misto tra polpa di pane e d’inchiostro, declinato in mille umori, tra sfumature secche e sentori di muffa. In quello stato d’animo confuso tra il bohemien e le campagne toscane, Andrea lesse ancora.
E scoprì un popolo d’antiche e fiere guerriere, alla conquista di nuovi mondi. Percorse un intero universo tra un albero ed un muro. Apprese di Kona e Kina, di quanto siano micidiali, le armi degli umani. Poi si imbatté in una strana specie stravagante e le sue astuzie e sotterfugi per sopravvivere, per appropriarsi di uno spazio nella nostra vita. Andrea pensò che era sicuramente da salvaguardare, come specie. Costeggiò il dolore, perdendo tutto e mai la dignità, sconfitto da una giostra e da un sogno, mentre s’accendevano tutte le luci del mondo. Scoprì che anche un byte poteva avere una sua visione del mondo e ne condivise la terribile fine, sentendo che anche la sua vita sarebbe finita in un ciclo e la sua consapevolezza fusa col nulla. Si lasciò attraversare da venti di guerra, tra le pagine fitte di storie che compongono la storia. Pagine tristi e non fiere, di un passato mai lontano.
“…era meglio si facesse trascinare dalla prima boccata di vento buona verso Marsala.”
L’ultima riga, non era l’ultima, però. Pian piano nella sua mente prese forma un’isola lontana e possibile, con fuochi accesi sulla spiaggia deserta. Tra le capriole di fumo dei falò, percepiva le presenze. Gli sembrava di scorgere dei volti e, nei volti, sempre nuove identità. Tra i volti vide il suo e non se ne stupì.
Fine
Andrea si scosse, con la delusione di chi, ridestato bruscamente da un sogno, fatica ancora a congedarsene. Mentre richiudeva il libro, un pensiero tornò a farsi sentire. Acuto come uno spillo.
Già, Caterina… una storia che non ho scritto ancora, che forse non scriverò…
Arrotolò il libretto a tubo e lo compresse per bene nella tasca del giaccone. Un vago borbottio dello stomaco, forse era bene mandar giù qualcosa. Alzandosi si sentì un poco intorpidito, formicolante, la punta delle dita gelida, stranamente leggero. S’accorse quasi di colpo del tempo trascorso.
Non c’è più in giro nessuno… Accipicchia, com’è tardi!
Con quella strana leggerezza dentro, che nella mente diventava soffice ovatta, si avviò verso casa.
Un poco saltellando, per scuotersi da quell’immobilità nel gelo. Di colpo, capì.
Capì e sorrise, sulle labbra e nel cuore.
Ieri era finalmente ieri, non solo poche ore fa.

lunedì 24 dicembre 2007

“Generazione fregata” (inedito di pourquoipas)

Caro Mario,
la nostra è una generazione fregata dalla Storia e adesso, senza pretesa di scrivere un trattato sociologico, ma solo raccontando quelle che furono, e sono, le mie percezioni, cercherò di spiegarti il perché.
Nel 1969 avevo 14 anni e, pochi giorni prima di Natale, mio padre venne, una sera, a prendermi in palestra e, nel riaccompagnarmi a casa, mi disse che c'era stata una strage a Milano: era la bomba di Piazza Fontana.

In quegli anni, prima e dopo quella sera di dicembre, di stragi, bombe, scioperi e manifestazioni ce ne furono tante. Ho ricordi confusi di quel periodo, ma vividi: il Ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, intervistato dal telegiornale davanti ai cancelli di una fabbrica occupata, la voce fiaccata dal tumore che, da lì a pochi mesi, lo avrebbe ucciso; gli studenti del maggio francese con i loro slogan: “Ce n’est qu’un début continuons le combat!” e le loro utopie; Rudi Dutschke e Daniel Cohn-Bendit, apostoli del movimento studentesco prima e fondatori dei Verdi poi; i cortei in piazza, l'occupazione dell'Università Statale di Milano, gli scontri tra gli studenti e la Celere, i morti da ambo le parti: Antonio Annarumma, ucciso in piazza pochi giorni prima della strage di piazza Fontana, e poi Giuseppe Pinelli, anarchico fermato dalla polizia dopo quell'attentato, che vola fuori dalla finestra della Questura di Milano (interrogatorio finito male? Suicidio? Non so e, forse, nemmeno mi interessa saperlo). E questo solo per citarne due, i primi che mi vengono alla mente.
Passano gli anni, e io cresco; sono gli anni di piombo, scanditi da esplosioni e dal crepitio delle P38, ma la mia vita continua apparentemente normale, anche se il telegiornale stila, giorno dopo giorno, bollettini di guerra con cronache di mortammazzati.
All'Università un diciotto non si nega a nessuno (e stiamo pagando, o meglio, i nostri figli stanno pagando questo lassismo) e il trenta negli esami di gruppo è d'obbligo; al liceo il sei politico è all'ordine del giorno, salvo se il prof ha le palle e se ne frega. Pensa la nemesi: l'altro giorno, davanti all'Accademia di Belle Arti occupata ho letto la richiesta di premiare la meritocrazia. Decisamente i tempi sono cambiati e, forse, i ragazzi di oggi hanno le idee più chiare di quanto le avessimo noi.
Finiscono le scuole superiori e inizia l'Università e troviamo una nuova compagna di viaggio: l'eroina, narcotico per il corpo e la coscienza. Quanti morti ... una guerra, un'altra: uccisi da un'iniezione nei cessi della scuola, o su una panchina dei giardinetti, nell'androne di un palazzo. Spesso soli come cani, soffocati dal proprio vomito e da quella porcheria che si iniettavano nelle vene, dove c'era di tutto: gesso, talco, intonaco, farina e, perché no, pure un po' di brown sugar. Il rito del limone, del laccio, del cucchiaino e dell'accendino, la ricerca, a volte affannosa, di una vena che non fosse al collasso. A uno, in crisi di astinenza, una volta gli amici fecero una pera, ma le vene delle braccia erano rovinate, e idem quelle delle gambe. Non trovarono di meglio che bucarlo sulla grossa vena che sovrasta il pene. Storie, storie che sconfinano nelle leggende metropolitane come quella del voyeur del buco, un arzillo vecchietto che, in un parco pubblico, spiava indifferentemente chi si bucava e chi faceva l'amore. Ciaicentolire era il ritornello che ti seguiva ovunque, lungo le strade più frequentate, nelle metropolitane, alle fermate degli autobus, nelle stazioni ferroviarie; chi non era così allo sbando da biascicare quella richiesta, imbastiva pietosiissime storie di treni persi e portafogli rubati, di mamme morenti e di biglietti ferroviari da acquistare con urgenza, pur di raccattare qualche spicciolo. Quanti ne ho finanziati, aiutandoli, forse, a finire con i piedi in avanti. Che rabbia! Ragazzi che si autodistruggevano per fuggire, ma da cosa? Da una famiglia perbenista e repressiva? Da un ambiente sociale miserabile e senza speranze? Dal degrado di certe periferie costruite da palazzinari senza scrupoli e prive di servizi e di centri di aggregazione? Dalla noia? Dall'ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto?
E la polizia che sapeva, conosceva chi si bucava, chi spacciava e chi faceva entrambe le cose e tendeva a sorvegliare la situazione, intervenendo solo quando non poteva fare diversamente. A volte arrestava qualche ladruncolo, a volte beccava lo spacciatore, a volte, forse, portava pure qualcuno in campagna per avere un robusto scambio di idee con lui. Ricordo che, in una strada commerciale della mia città, vicino al centro, una volta vidi un ragazzo, frequentatore abituale della vicina piazza nella quale i “tossici” facevano costante capannello, che aveva un ascesso grande come una palla da tennis, lucido e paonazzo, su un braccio e cercava di convincere due poliziotti che non aveva bisogno di aiuto, che non voleva andare all'ospedale.
L'eroina, droga solitaria, che contrasta con lo spinello, la canna che si fuma in compagnia. Allucinazioni, squilibri, eccessi anche in questo caso. Un ragazzo calabrese, all'Università dove andavo, il sabato e la domenica restava solo, perché i suoi abituali amici e compagni di fumate tornavano a casa. Lui restava lì, come un torsolo, e senza roba. I soldi della borsa di studio non gli permettevano di acquistare per l'hashish, e la famiglia, poverissima, quattrini non gliene mandava di sicuro. Lui contava sul fumo che gli passavano gli amici benestanti, quando c'erano ... il sabato e la domenica fumava di tutto: foglie di tè, bucce di limone seccate, chissà quali altre schifezze. Lo hanno trovato mentre camminava lungo i binari della Bologna-Milano, in preda a un evidente stato confusionale. Se fosse finito sotto un treno sarebbe stato, in pochi mesi, il terzo morto in modo violento tra gli studenti dell'Università. La droga come rifugio dalla depressione? Forse in quest'ultimo caso sì, ma negli altri due chissà cosa scatenò il volo nella tromba delle scale e la fucilata in bocca. Solo Dio e la loro anima, ormai, lo sanno.
Altra nemesi: le droghe della mia generazione erano sedativi, al massimo, come i derivati della canapa indiana, allucinogeni. Adesso le droghe sono eccitanti, “veloci” sia negli effetti che nel distruggerti il cervello. Forse, e scusa il cinismo, è meglio così: un'autodistruzione veloce è, senz'altro, da preferirsi a una lunga agonia.
E ancora bombe, e le Brigate Rosse che gambizzano giornalisti, rapiscono generali e politici, ancora manifestazioni e cortei. Il sole era diverso in quegli anni, sembrava cupo, come spento. La mia vita, però, continuava normale: avevo libertà che i miei genitori non avevano mai avuto, potevo pure permettermi di risponder loro male senza esser preso a cinghiate. Lo studio? Lettore avido e onnivoro, leggevo di tutto, ma lo studio finalizzato non era arte mia: l'Università era un esamificio, dove si aveva successo solo se si davano esami a catena, non importa che poi non imparavi nulla, l'importante era gonfiare il libretto. Io studiavo per il piacere di conoscere le cose: impiegai sei mesi per preparare l'esame di botanica generale, che, normalmente, non ne richiedeva più di un paio, ma sapevo tutto, veramente tutto. Un esame non mi interessava? Chissenefrega, non lo davo, rimandavo.
E, come me, tanti miei coetanei, come me troppo giovani per aver fatto il Sessantotto, lanciati alla scoperta di un mondo che vedeva i ragazzi andare a scuola non più con la giacca e la cravatta, ma col maglione e l'eskimo (ricordo, come un'allucinazione, una vetrina che esponeva un eskimo griffato Pierre Cardin, la moda che scopriva la rivoluzione) e dare del tu ai professori, a godersi la libertà di uscire la sera e di fare tardi, a invidiare un po' i più scafati, che si appartavano con le ragazze.
Le ragazze, già, come non ricordarle? Il femminismo, le streghe che sono tornate, l'allergia al reggiseno (chissà perché le più allergiche, di solito, erano quelle che di seno ne avevano di meno). Dall'alto dei miei quasi due metri d'altezza, d'estate sbirciavo (involontariamente, ovvio!) nelle scollature delle amiche mie. Vestivano uno schifo, con i loro gonnelloni a fiori, gli zoccoli e i calzettoni a righe sopra il ginocchio, ma con loro si poteva parlare, anche se si provava un po' di soggezione. E poi, nei centri sociali o durante le occupazioni delle scuole, magari ci scappava anche qualche politicizzatissima scopata. Siamo stati forse i primi a provare una certa libertà di costumi sessuali, e credo l'abbiamo pagata negli anni a venire. Moltissimi coetanei, maschi e femmine non importa, hanno avuto matrimoni fallimentari, finiti in divorzi, dopo separazioni più o meno burrascose.
Ascoltavamo i Pink Floyd e i Led Zeppelin, De Andrè (mi manchi, Fabrizio, quanto mi manchi) e Francesco Guccini ma anche (di nascosto) i Cugini di Campagna: sono bravissimo a cantare “Anima mia" in falsetto. Le letture, poi ... Siddartha era d'obbligo, e poi Keruac (io preferivo Hemingway, ma mica lo raccontavo in giro); si faceva dell'anticonformismo una conformistica professione di fede.
Poi, come Dio volle, si passò dagli anni di piombo alla Milano da bere, ma, intanto, il treno non si era fermato: la mia generazione aveva scialacquato un patrimonio di talento e di idee, l'immaginazione non era andata al potere e una risata si stava apprestando a seppellirci. Facci caso: quanti sono i cinquantenni che, in Italia contano veramente? E quanti, invece, i sessantenni, e i quarantenni? Già, la rivoluzione degli anni Settanta aveva portato al potere i nostri fratelli maggiori, mentre gli anni Ottanta stavano producendo lo yuppismo e premiando i nostri fratelli minori.
Capito, caro Mario, perché la nostra è una generazione fregata? O troppo giovani, o troppo vecchi. E quanti di noi sono scomparsi? Troppi, forse i più geniali, forse i più sensibili o, forse, soltanto i più deboli.
Andrea Pazienza non c'è più, entrato in una delle sue storie di Pompeo, Pier Vittorio Tondelli nemmeno, uscito di scena perché ucciso dall'AIDS, quella malattia che un omofobo dichiarato definì, una volta, “il diserbante per i finocchi”, con sprezzante crudeltà. E Rino Gaetano? Di noi un po' più grande, ucciso dalla sua Volvo e dal ricovero negato in cinque ospedali, come accadde al protagonista della sua “Ballata di Renzo”. Che spreco, che spreco di talento e di genio, fregati anche in questo.
Un'ultima, ironica, prova di quanto la Storia (grande puttana con la “S” maiuscola) ci abbia fregato? Poco dopo che avevo compiuto diciannove anni il conseguimento della maggiore età fu portato, per legge, da ventuno a diciotto anni ... che fregatura!!! Se marinavo la scuola dovevo chiedere ai miei la giustificazione, ed erano prediche. Onesto come sono, infatti, ritenevo riprovevole falsificare una firma.
Che ti posso dire di più? che a distanza di trent'anni mi sento un reduce, scampato a tante battaglie e non tutte vinte, caro Mario, e che, adesso, voglio solo la pace e la tranquillità di un porto sicuro, dove vivere sereno gli anni, spero tanti, che mi restano.

Un abbraccio fraterno.

domenica 23 dicembre 2007

"Nostos" (Inedito di Tania Giuga)

Un ritorno, ti conosco sotto la luce della grazia.

Ti stavo aspettando. Entra. Durante questa lunga assenza, il pensiero inventava un sorriso, ripassando il biglietto che m’infilasti in tasca prima di partire. Se ricordo bene, scrivesti che ti mancava il mio malizioso indugiare dietro la porta d’ingresso, per coglierti alla sprovvista, in penombra, con un bacio. Di rannicchiarmi, scomparendo sul sedile anteriore dell’automobile, aggrappandomi alla tua mano posata sul cambio.
In viaggio ho ripercorso noi. Nei rari giorni senza maestrale, mentre la campagna assordante di cicale si inaspriva, bevendo il turchese salmastro del mare. Ogni tanto una spina acuminata, dritta e spavalda, interrompeva il silenzio modulato dalle nostre mille parole d’amore. A beffa della distanza, ti stanavo a ogni angolo. L’andirivieni della gente in ozio, allungava un minuto d’ombra sulla mia schiena, tra occhiate frettolose e passi distratti sulla rena. Ma il tuo odore mi ha sempre accompagnato, con l’aroma stordente del giorno che deve morire. Quando le tue labbra cercarono le mie, la prima volta, nel concitato frastuono di una nottata euforica, io assaggiai il brivido di una familiarità fraterna e assoluta; pensai d’essere nuda e quella naturalezza avida e svestita, l’abito più consono alle nostre conversazioni.

Perdonami l’enfasi, l’inclinazione lirica è un difetto duro a spegnersi. Intanto che salivi le scale, lo stomaco mi si torceva, nel timore di qualche dettaglio estraneo al tuo modo definitivo di sorridermi, di camminare danzando. Ci salutiamo da confini adiacenti e biforcati, mentre villeggi molle e svagato con la tua famiglia.
Appena giunta, i bagagli disfatti per metà, l’immancabile Benson tra indice e medio, mi cullo nell’assolata tranquillità della casa materna, evitando di riallacciare vecchie amicizie, per non svelare di te a compagni comuni, per sottrarmi al giudizio facile, al rischio delle confessioni che nella calura meridiana sono divulgate per tedio incombente. E tu che pensavi di stringere tra le braccia una sfacciata virago metropolitana! Ora che ti posso ghermire nella calma della semplicità, ti pettino i capelli ondulati e ribelli con le dita e mi pervade un lieve tremito, annusando la tua testa brizzolata. Ironizzi sulle mie conquiste. Ribatto giocando a ingigantire il tuo inossidabile fascino; maturo seduttore di ninfette sprovvedute! Ma nemmeno un residuo di sarcasmo offusca il tuo sguardo bruno e acquatico, che esplora la mia pelle abbronzata. Era scritto, di questo ritorno in te, da un destino preciso che ha fatto i conti con altri regimi di prossimità. Avvolta nella nuvola del profumo che mi lasciasti in pegno, entrambi stregati dalla memoria olfattiva, ci muoviamo nel buio creato per lenire qualsiasi imbarazzo, ci alziamo e abbassiamo uno contro l’altro…Siamo così vicini, da confonderci, eppure un’ombra, una lama di uggia, di buio, s’insinua a pugnalare la bellezza, i sussulti ritmici di una fratellanza fisica e spirituale. Ci somigliamo, il cuore come la luna, sterrato da antichi crateri. Il tempo, il tempo, il tempo, una pasta corposa, un nodo intrigante di vizi e virtù. Quanto ne abbiamo, quanto ce ne rimane, a chi lo neghiamo, mentre ce lo regaliamo. Mi vesto di bianco, è un colore pio e orgoglioso, aperto e vago. Ti prendo e curi ogni male. Sei mesi di catarsi, di immemore sonnambulismo.
Sola, distesa sul divano, lascio che l’anta della porta finestra sbatacchi per ore, con cadenza uguale e metallica, accompagnata avanti e indietro dalla mano dello scirocco, greve d’umidità. Esanime, mescolo rievocazione e scorci immaginari del libro giapponese che sto sfogliando annoiata. Un cattivo romanzo, tradotto con approssimazione, nel quale succede di imbastire l’abito ad un po’ di relitti adolescenziali.
Parliamo stretto, impulsi trasmessi in alfabeto Morse, un lessico di sistoli e diastoli, un alito lungo.
Slittiamo nel piacere amaro della resa e, mentre ci tempriamo, simulando che ognuno imbocchi di lì a poco divergenti tragitti, seguitiamo a bagnarci l’uno nella fonte dell’altro. Prigionieri spontanei di un cerchio privato, che questi quartieri e questa terra bollerebbero come amorali e sacrileghi; eppure la nostra è la storia più vecchia del mondo.
Amanti per volontà pervicace da naufraghi, condannati a trarsi in salvo, sempre.
Muore la quiete clandestina, i labirinti di foglie, travolta da mulinelli di venti contrari; mi proteggo con le tue camicie blu, seconda pelle di cotone e lino. Ma questa è la partita a scacchi degli eventi, concepita al rovescio: chi perde si strapperà al pericolo.
Siamo, per un attimo, poi, fortuitamente, per un altro ancora. Ti stendo sulle guance il belletto del passato, al quale mi avvinghio per capire; apriamo ferite e cauterizziamo tradimenti, facciamo l’amore.
Tua moglie presentì, nei suoi sogni, anni addietro, con largo anticipo: mi malmenava per averti sedotto.
Ti conosco, sempre meno, ancora di più, quando approdo e ti discosti, non disponendo della facoltà di annullare il mio disadorno io, il possesso, l’attaccamento. Scambio il posto con te e divento marito, anche se l’ufficialità di una relazione non mi si addice. Sarei codice conforme di ciò che è bene, quel che è lecito, opportuno, spesso fasullo.
Stavolta tocca a me rinunciare a incontrarti, in favore dell’estate altrui.
Torni alla base, al tuo guscio di occupazioni e smaniose insofferenze, io, alla mia civettuola accoglienza dello svago, zeppo di mondanità. Siamo terrorizzati, forse per la nostra incallita doppiezza, forse perché assuefatti a omettere e raggirare, ma sempre dietro l’aureo paravento di una sensibilità capricciosa e nostalgica. Tremanti, senza dispense, davanti all’ipotesi della desolazione affettiva. Oggi ci muovevamo separati da una membrana di spazio: fuori, una striscia di massi vulcanici affollata da bagnanti feriali; dentro, il tuo fantasma scherzava nella medesima stanza dove ero già stata la tua infreddolita amante. Assorbita dalla domenica dei pranzi ansiosi, da mia madre - dopo tanti anni le ho offerto il braccio senza avvertire repulsione, capisci, si è appoggiata a me per restare in equilibrio sugli scogli - e ho percepito la sua fragilità, quel lieve sopravvenire di una nuova epoca, all’interno della quale i conflitti si smorzano, diventano di poco spessore, come le nostre diversità. Si nasce soli, si vive in solitudine, ma non è poi un così malvagio procedere. Se qualcuno ti osserva in profondità, oltre il limite del giardino, delle siepi civilizzate dal quotidiano, di là dalla paura della notte che avanza e ti trova accovacciata davanti alla tv. Parlami piano, adagio varca le diffidenze e la limitatezza di fissare il cielo dal fondo di un pozzo, circoscrivendolo all'interno di un angusto tondo azzurro; ma non dare assetto troppo stabile alle nostre vite, altrimenti non resterebbe più nulla da fare, niente per cui valga la pena di rilanciare l’intera posta sull’infido tavolo verde.
Al cambio di stagione, di schianto, qualcosa inaridisce e rantola. La flebile tela della sciagura annunciata, che tanto contenta il mio egotismo, bussa con violenza; l’abituale vocazione a rappresentare il mondo come se non vi risiedessi. L’accumulo forsennato di orme a testimonianza del passaggio, nello zaino grave del presente che si svuota di colpo. Settembre. La consorte esce di senno! Con un solo gesto ribalta il racconto, nullifica il miraggio di sollievo racchiuso in un calice di leggerezza, seppur colpevole. Quella, che tutto sa e tutto vede, dal bieco scranno di un ruolo difettoso e centrale, ci condanna e ti riassorbe, difettoso e connivente, in grembo, con l’esca della vostra reciproca colpevolezza. Si segrega nella sua stessa carne tumefatta. Tu sei la vanga, io il machete, il badile implacabile usato dal rito arcano che a tutti noi attribuisce un posto, impedendoci di avvicinare un plausibile motivo, per quel che siamo stati chiamati a fare. È apparso il delirio, me lo sento nello stomaco con vuoti di fiato; sto, fermissima, per non farmi trovare impreparata. Una ragnatela robusta ci cattura, laddove i ragni che Lei vede affollarsi sul pigiama blu, il vestito delle tenebre dentro la sua mente sconnessa, lambiscono anche me. Gira, gira la testa e i pensieri con essa, in un vorticoso dibattito interiore…
Chi dovrebbe essere rinchiuso? Noi? Lei…Per rimanere a galla è necessario riattaccare una ragione semplice a tutti gli intervalli che rapiniamo.
Ho il sospetto di vestire i panni del boia: per attributo la pretestuosa lacrima di coccodrillo, incollata al viso dagli sputi di una folla benpensante. Giuda che tradisce Cristo. L’Iscariota! Eletto altrettanto proditoriamente dalla storia come arma raffinata di un suicidio vicario. Il racconto si trascina a valle, lo spartito della luce blocca le pause, sollevando ombre gigantesche. Scacco al re, alla regina e ai fanti! Tutti i pezzi abbattuti…girogirotondo quanto è bello il mondo…cade giù la terra, tutti giù per terra…
Ma siamo seri! Abbiamo raccolto un minuto per volta, accantonando i progetti, le speranze, i pretesti, tutto per non soffocare un germoglio trapiantato in un campo che altri hanno già provato a dissodare, prima e meglio di noi, con mediocri risultati.
La scommessa è di ignorare le regole del gioco e alterare gli esiti: essere scacchiera e pedina mai. Desiderami ora, se credi, dopo non più, più tardi. Non ancora.
Strattona il buon senso, la prevedibilità delle relazioni dall'esito già designato, che, per sfinire, devono riconoscersi in un incipit ben preciso: una data, un’ora, la ricorrenza di un’insopportabile dolcezza, disegnata a matita sul palpito irripetibile.
Ci rincorriamo da sempre, intrecciando cene e chiacchiere, sesso e gelosie, confessioni e psicanalisi. Vado, il tempo mi prende a calci affinché io segua la costa frastagliata dell’esitazione. Ti lascio tutti i miei pezzi anatomici: cuore, reni, polmoni, tiroide e fegato dalla bilirubina alta. Non ti muovere. Fai che possa disperarmi da assente, nel chiostro nebbioso di un’altra latitudine.
Avremo in cambio specchi deformanti, nel fondo dei quali l’unico riflesso sarà il verde guasto di una palude limacciosa; via i porti! Via gli ormeggi! Faccia a faccia con la risata oscena dell’infanzia…Torneremo!
Questa fabula si trascrive e intanto si vive. Ti pronunci con sguardo lontano: sono l’uomo invisibile, mi vedi? Non esisto. Uno scricchiolio fa dubitare che il mobilio sia nuovo di zecca, mi s’annebbia il panorama di smisurati presenti. Ti bacio ancora, con un retrogusto aspro e chiedo da sordomuta: torneremo?