sabato 19 giugno 2010

Bellezza inutile

Bella era, ma di una bellezza inutile, iperreale, quasi irritante nella sua perfezione. La vedevo tutti i giorni, occhieggiava dai manifesti giganti ai lati della tangenziale, vestita di un due pezzi o di reggiseno e mutandina, secondo la stagione. Mi guardava, con lo sguardo vuoto, perso in un viso privo di quelle piccole imperfezioni, di quei nei, di quelle sottili asimmetrie che fanno la vera bellezza. Le labbra, perennemente socchiuse in un broncio da lolita fuori stagione, volevano simulare un sorriso ma sembrava un archetipo, prototipo creato da un ingegnere perfezionista.
La posa voleva, forse, essere provocante, ma non mi dava affatto quell'impressione: sembrava una bambola di pezza che uno scenografo attento avesse disposto su di un palcoscenico. Un ricciolo, sempre quello, scendeva curvando dalla fronte verso l'angolo della bocca, dalle labbra color labbra e dai denti color denti.
A volte pensavo che non fosse una modella, un essere umano, ma una creazione di qualche maestro della grafica tridimensionale, un avatar talmente perfetto da sembrare quasi reale, poi, dentro di me, pensavo: “ma certo che è bella, ma certo che è senza difetti, è il suo mestiere. C'è chi lavora in ufficio, in fabbrica, in negozio, lei lo fa dal massaggiatore, dall'estetista, sul set fotografico. Come altro deve occupare il suo tempo tra un un manifesto e l'altro? Deve solo curare il suo viso, il suo corpo”.
Questo pensavo mentre la tangenziale scorreva sotto le ruote della mia automobile, a volte veloce, a volte a passo di lumaca. I giorni diventavano settimane, le settimane mesi, i mesi stagioni e lei era sempre lì, sui manifesti, inutilmente bella, a volte con un bikini a fiori, a volte con un reggiseno di pizzo coordinato con una brasiliana. La posa cambiava a ogni manifesto, ma, per qualche motivo a me ignoto, sembrava sempre la stessa.
Quel lunedì presi, come il solito, la tangenziale; arrivato al punto dove sorgeva il primo cartellone, con un riflesso condizionato alzai gli occhi a guardare ... a guardare cosa? Lei era scomparsa, la sua abituale figura discinta era stata sostituita dal manifesto che pubblicizzava un'auto sportiva; ebbene, quasi una sorta di contrappasso, quell'auto mi sembrò inadeguata, fuori posto. Il senso di meraviglia per la scomparsa di un'abitudine mi prese, quasi come se, rientrando a casa, la sera avessi scoperto che il mio vicino era morto improvvisamente, o che una forza misteriosa aveva cancellato la montagna che, ogni mattina, guardavo affacciandomi alla finestra. Che ci faceva lì quell'auto, chi aveva permesso all'agenzia di affissioni di cambiare il manifesto? Proseguii, fidando nel prossimo cartellone ... Orrore! L'archetipo della bellezza era scomparso anche da lì; al posto del suo broncio da lolita fuori stagione un manifesto annunciava che al Politeama si sarebbe rappresentata la commedia musicale dell'anno. Continuai a cercare con gli occhi il manifesto sempre diverso ma sempre uguale: lungo tutta la tangenziale non ve n'era più la minima traccia. Qua la pubblicità di un negozio di scarpe, là quella di una bibita gassata, là ancora, sacrilego, un manifesto pubblicizzava una marca di biancheria intima, ma la modella era deliziosamente imperfetta, bella, anzi stupenda, con una leggera asimmetria tra gli zigomi e un neo maliziosamente poggiato su una spalla. Bellissima, sì, ma non inutilmente bella.
Non sapevo darmi pace. Che fine aveva fatto il prototipo della bellezza, dov'era scomparso quel pezzo di paesaggio che accompagnava la mia vita in tangenziale? Quale pozzo aveva inghiottito l'iperrealtà, come un buco nero ingoia qualunque cosa gli passi vicino, luce compresa?
Quella mattina non riuscii a lavorare; la mia prima preoccupazione fu quella di accendere il computer, collegarmi a Internet e cercare sul web notizie. Notizie di chi o di cosa? Il nome che troneggiava sui manifesti era certamente un marchio di fantasia, un'etichetta destinata a vivere finché le vendite la nutrivano. Tentai ugualmente e febbrilmente digitai quelle parole, che ricordavo a stento, nella casella di un motore di ricerca e maledissi gli esperti di marketing che avevano usato, come marchio, una frase di uso più che comune.
Il risultato fu sconfortante: oltre sei milioni di pagine la contenevano, impensabile leggerle tutte. Provai a raffinare la ricerca: nulla! Pensai di aver sbagliato a scrivere e tentai con infinite varianti: al singolare, al plurale, invertendo le parole, provando con sinonimi, contrari, errori di battitura ... nulla!
Giornata inutile, persa nella ricerca di un fantasma, di un ectoplasma evanescente. Come poteva un manifesto, che neppure mi piaceva tantissimo, avermi stregato al punto da farmi dimenticare ogni altra cosa? Come poteva quel sorriso che sorriso non era, quella bambola di pezza in carne, ossa e carta, farmi cercare affannosamente un sacro graal che sacro graal non era?
Folgorato da un'idea iniziai a entrare nei negozi di biancheria per signora, inventandomi la pietosa bugia di un regalo e chiedendo notizie su ”quella marca sa, quella che si vedono i cartelloni in giro, con quella bella ragazza mora”; non avete idea di quante marche di biancheria intima ci siano e di quante siano pubblicizzate sui cartelloni da belle ragazze more.
La frustrazione mi prese; feci ancora qualche tentativo, ma sempre più fiacco, sempre più svogliato: i giorni diventarono settimane, le settimane mesi, i mesi stagioni; lentamente la bellezza inutile sfumava in un ricordo che portava seco un senso di vago rimpianto, di malinconia, di incompletezza. Smisi di guardare i cartelloni pubblicitari, mi concentrai solo sulle targhe e sui tubi di scarico delle automobili che mi precedevano finché, dopo che molte altre manciate di chilometri erano passate sotto le mie ruote, un giorno alzai nuovamente gli occhi.
No, non mi potevo sbagliare, quel ricciolo curvo verso quella bocca dalle labbra color labbra, socchiusa in un broncio che scopriva quei denti color denti, era inconfondibile; la bellezza inutile era tornata, vestita solo di una tazzina di caffè e di uno slogan.
Provai un vago senso di imbarazzo, un po' come quando si incontra un'antica fidanzata o un vecchio compagno di liceo, quasi calvo e con la pancetta: “Sei sempre uguale, per te il tempo non passa mai”, la pietosa, usuale menzogna. Quell'inutile bellezza, là, su quel manifesto, con quello slogan che magnificava le doti di quel caffè, ebbene, quell'inutile bellezza non era più la stessa, come se la delusa frenesia con la quale l'avevo cercata solo pochi mesi prima l'avesse, in qualche modo, imbolsita, avesse trasformato la sua bellezza in un mazzo di rose secche.
L'avevo ritrovata ma, in qualche modo, l'avevo persa di nuovo e la tangenziale, indifferente, continuava a scorrere sotto le mie ruote.

domenica 13 giugno 2010

Ho letto: "Il Barone rampante" di Italo Calvino

Cosimo Piovasco Barone di Rondò, nobiluomo ligure della fine del Settecento, ha, fin dalla preadolescenza, una vita ricca e densa di avvenimenti. Si è costruito una cultura vastissima, che gli ha permesso di intraprendere scambi epistolari con Enciclopedisti e filosofi, ha realizzato opere idrauliche e istituito un corpo di volontari deputato a spegnere gli incendi dei boschi, combattuto i pirati Barbareschi, vissuto innumerevoli avventure galanti e un grande, grandissimo amore per la Marchesina Violante D'Ondariva, detta la Sinforosa, è stato Gran Maestro di una loggia massonica, ha guidato il popolo di Ombrosa nella rivolta contro i Genovesi e incontrato Napoleone Bonaparte.
Nella sua lunga vita ha conosciuto ladri di frutta, librai ebrei, briganti e nobildonne genovesi (le "Cinque Passere"), blasonati spagnoli in esilio e infidi Gesuiti, ufficiali di marina e carbonai bergamaschi. E' stato cacciatore, spadaccino, tipografo e chissà cos'altro ancora. Una vita piena e avventurosa, che lo ha reso famoso in tutti i salotti europei, pur se non si è mai allontanato da Ombrosa.
Come mai è così conosciuto anche se altri contemporanei hanno avuto vite più avventurose della sua? A cosa è dovuta la fama di "buon selvaggio" che lo accompagna? Al fatto che Cosimo Piovasco Barone di Rondò dall'età di dodici anni, e precisamente dal 15 giugno del 1767, vive sugli alberi.
Un atto di ribellione di fronte a un piatto di lumache rifiutato, una discussione con il padre, il severo Barone Arminio, e Cosimo esce dalla villa paterna per salire su un maestoso elce che troneggia nel giardino, giurando che non sarebbe mai più sceso a terra. E mantiene la parola, come racconta il fratello minore Biagio, voce narrante del romanzo.
Una sola volta si allontana da Ombrosa: quando, per la curiosità di conoscere certi Spagnoli, arboricoli come lui, se ne va al vicino borgo di Olivabassa, sempre per vie aeree, e si trattiene colà per qualche tempo; e una sola volta abbandona i suoi alberi per trovarsi aggrappato al pennone di una scialuppa, in fondo un albero pure quello, a combattere con tre ufficiali barbareschi.
Grande la fantasia di Calvino nel generare il protagonista, e grande anche la sua maestria nel tratteggiare gli altri personaggi della storia a cominciare da Viola, la Sinforosa, che il Barone conosce quando sono entrambi bambini, e che sparisce dalla sua vita per qualche anno, per rientrarvi prepotentemente. La loro è una storia d'amore profondo e di grandi slanci, che termina perché lui non vuole ammettere di essere geloso, mentre lei è quello che desidera per sentirsi più amata. Troppo orgogliosi per cedere, si lasceranno e le vicende storiche faranno sì che non si incontrino mai più, pur essendo fatti l'una per l'altro.
Che dire, poi, del Cavaliere Avvocato Enea Silvio Carrega? Fratello naturale del padre di Cosimo, idraulico e sovrintendente alle proprietà della famiglia, sembra di vederlo, questo ometto con la zimarra e il fez, abbigliamento rimastogli per certi trascorsi Ottomani che lo porteranno a una tragica morte.
O ancora della Generalessa madre? A dispetto della rigida educazione militaresca ricevuta dal teutonico genitore, è mossa da slanci di amore verso quel figlio bizzarro, osservato nelle sue evoluzioni arboree grazie a un cannocchiale da campo. In punto di morte la Generalessa vorrà essere accudita solo da Cosimo che, appollaiato su un ramo fuori la finestra, grazie a certe lunghe pertiche soddisferà le sue richieste.
Ci sono altri personaggi minori, come il brigante Gian dei Brughi, la sorella Battista, cuoca del piatto di lumache che scatenerà la ribellione, l'abate Fauchelafleur e così via, figure di sfondo di un affresco pieno di brio.
Non poteva mancare un cane fedele: il bassotto Ottimo Massimo. Difficile immaginare un'accoppiata più scombinata: il cane vive rasente il terreno e il padrone si muove di ramo in ramo e di albero in albero, in un mondo tridimensionale negato ai comuni mortali.
Poteva mai il Barone Cosimo Piovasco di Rondò morire in un letto al termine della sua vita arborea? Certo che no, anche se il fratello Biagio e gli abitanti del paese gli allestiscono un letto a baldacchino sul noce della piazza: un giorno vede apparire una mongolfiera, si aggrappa alla corda dell'ancora penzolante dal pallone e sparisce verso il mare. Non se ne saprà più nulla.
Le invenzioni sono tante e tante, in uno scoppiettante gioco di immaginazione, e rendono "Il Barone rampante" una lettura godibilissima e un romanzo fuori dagli stereotipi: bellissimo!