Bella era, ma di una bellezza inutile, iperreale, quasi irritante nella sua perfezione. La vedevo tutti i giorni, occhieggiava dai manifesti giganti ai lati della tangenziale, vestita di un due pezzi o di reggiseno e mutandina, secondo la stagione. Mi guardava, con lo sguardo vuoto, perso in un viso privo di quelle piccole imperfezioni, di quei nei, di quelle sottili asimmetrie che fanno la vera bellezza. Le labbra, perennemente socchiuse in un broncio da lolita fuori stagione, volevano simulare un sorriso ma sembrava un archetipo, prototipo creato da un ingegnere perfezionista.
La posa voleva, forse, essere provocante, ma non mi dava affatto quell'impressione: sembrava una bambola di pezza che uno scenografo attento avesse disposto su di un palcoscenico. Un ricciolo, sempre quello, scendeva curvando dalla fronte verso l'angolo della bocca, dalle labbra color labbra e dai denti color denti.
A volte pensavo che non fosse una modella, un essere umano, ma una creazione di qualche maestro della grafica tridimensionale, un avatar talmente perfetto da sembrare quasi reale, poi, dentro di me, pensavo: “ma certo che è bella, ma certo che è senza difetti, è il suo mestiere. C'è chi lavora in ufficio, in fabbrica, in negozio, lei lo fa dal massaggiatore, dall'estetista, sul set fotografico. Come altro deve occupare il suo tempo tra un un manifesto e l'altro? Deve solo curare il suo viso, il suo corpo”.
Questo pensavo mentre la tangenziale scorreva sotto le ruote della mia automobile, a volte veloce, a volte a passo di lumaca. I giorni diventavano settimane, le settimane mesi, i mesi stagioni e lei era sempre lì, sui manifesti, inutilmente bella, a volte con un bikini a fiori, a volte con un reggiseno di pizzo coordinato con una brasiliana. La posa cambiava a ogni manifesto, ma, per qualche motivo a me ignoto, sembrava sempre la stessa.
Quel lunedì presi, come il solito, la tangenziale; arrivato al punto dove sorgeva il primo cartellone, con un riflesso condizionato alzai gli occhi a guardare ... a guardare cosa? Lei era scomparsa, la sua abituale figura discinta era stata sostituita dal manifesto che pubblicizzava un'auto sportiva; ebbene, quasi una sorta di contrappasso, quell'auto mi sembrò inadeguata, fuori posto. Il senso di meraviglia per la scomparsa di un'abitudine mi prese, quasi come se, rientrando a casa, la sera avessi scoperto che il mio vicino era morto improvvisamente, o che una forza misteriosa aveva cancellato la montagna che, ogni mattina, guardavo affacciandomi alla finestra. Che ci faceva lì quell'auto, chi aveva permesso all'agenzia di affissioni di cambiare il manifesto? Proseguii, fidando nel prossimo cartellone ... Orrore! L'archetipo della bellezza era scomparso anche da lì; al posto del suo broncio da lolita fuori stagione un manifesto annunciava che al Politeama si sarebbe rappresentata la commedia musicale dell'anno. Continuai a cercare con gli occhi il manifesto sempre diverso ma sempre uguale: lungo tutta la tangenziale non ve n'era più la minima traccia. Qua la pubblicità di un negozio di scarpe, là quella di una bibita gassata, là ancora, sacrilego, un manifesto pubblicizzava una marca di biancheria intima, ma la modella era deliziosamente imperfetta, bella, anzi stupenda, con una leggera asimmetria tra gli zigomi e un neo maliziosamente poggiato su una spalla. Bellissima, sì, ma non inutilmente bella.
Non sapevo darmi pace. Che fine aveva fatto il prototipo della bellezza, dov'era scomparso quel pezzo di paesaggio che accompagnava la mia vita in tangenziale? Quale pozzo aveva inghiottito l'iperrealtà, come un buco nero ingoia qualunque cosa gli passi vicino, luce compresa?
Quella mattina non riuscii a lavorare; la mia prima preoccupazione fu quella di accendere il computer, collegarmi a Internet e cercare sul web notizie. Notizie di chi o di cosa? Il nome che troneggiava sui manifesti era certamente un marchio di fantasia, un'etichetta destinata a vivere finché le vendite la nutrivano. Tentai ugualmente e febbrilmente digitai quelle parole, che ricordavo a stento, nella casella di un motore di ricerca e maledissi gli esperti di marketing che avevano usato, come marchio, una frase di uso più che comune.
Il risultato fu sconfortante: oltre sei milioni di pagine la contenevano, impensabile leggerle tutte. Provai a raffinare la ricerca: nulla! Pensai di aver sbagliato a scrivere e tentai con infinite varianti: al singolare, al plurale, invertendo le parole, provando con sinonimi, contrari, errori di battitura ... nulla!
Giornata inutile, persa nella ricerca di un fantasma, di un ectoplasma evanescente. Come poteva un manifesto, che neppure mi piaceva tantissimo, avermi stregato al punto da farmi dimenticare ogni altra cosa? Come poteva quel sorriso che sorriso non era, quella bambola di pezza in carne, ossa e carta, farmi cercare affannosamente un sacro graal che sacro graal non era?
Folgorato da un'idea iniziai a entrare nei negozi di biancheria per signora, inventandomi la pietosa bugia di un regalo e chiedendo notizie su ”quella marca sa, quella che si vedono i cartelloni in giro, con quella bella ragazza mora”; non avete idea di quante marche di biancheria intima ci siano e di quante siano pubblicizzate sui cartelloni da belle ragazze more.
La frustrazione mi prese; feci ancora qualche tentativo, ma sempre più fiacco, sempre più svogliato: i giorni diventarono settimane, le settimane mesi, i mesi stagioni; lentamente la bellezza inutile sfumava in un ricordo che portava seco un senso di vago rimpianto, di malinconia, di incompletezza. Smisi di guardare i cartelloni pubblicitari, mi concentrai solo sulle targhe e sui tubi di scarico delle automobili che mi precedevano finché, dopo che molte altre manciate di chilometri erano passate sotto le mie ruote, un giorno alzai nuovamente gli occhi.
No, non mi potevo sbagliare, quel ricciolo curvo verso quella bocca dalle labbra color labbra, socchiusa in un broncio che scopriva quei denti color denti, era inconfondibile; la bellezza inutile era tornata, vestita solo di una tazzina di caffè e di uno slogan.
Provai un vago senso di imbarazzo, un po' come quando si incontra un'antica fidanzata o un vecchio compagno di liceo, quasi calvo e con la pancetta: “Sei sempre uguale, per te il tempo non passa mai”, la pietosa, usuale menzogna. Quell'inutile bellezza, là, su quel manifesto, con quello slogan che magnificava le doti di quel caffè, ebbene, quell'inutile bellezza non era più la stessa, come se la delusa frenesia con la quale l'avevo cercata solo pochi mesi prima l'avesse, in qualche modo, imbolsita, avesse trasformato la sua bellezza in un mazzo di rose secche.
L'avevo ritrovata ma, in qualche modo, l'avevo persa di nuovo e la tangenziale, indifferente, continuava a scorrere sotto le mie ruote.
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