Andrea quel giorno era distratto.
Non riusciva a concentrarsi, più cercava di tornare sui suoi appunti, più le parole si appannavano, sottraendosi nel senso alla sua vista. Non era proprio sicuro che dipendesse da Caterina, ma certo una parte di responsabilità, lei l’aveva. Continuava a rimuginarci. Chissà che aveva voluto dire. Era sempre così vaga, piena di sottintesi. Quell’aria da eterna enigmatica. Che poi secondo lui, magari ci faceva. Altro che mistero, due pose, giusto per un idiota come lui.
Forse, più che Caterina, era questo avvertirsi ridicolo ai suoi occhi a risuonargli dentro, incessante.
- Basta!- Si alzò di scatto.
Meglio uscire visto che il diritto romano, almeno per oggi, viaggiava su binari inutilmente paralleli.
L’aria frizzante, fuori. Il piacere delle folate gelide sul viso, carezze ruvide di mani immateriali.
Si sentì meglio. Intorno il caos natalizio, con quell’aria similoro, rosso lacca, verde pino. Le vetrine sembravano pronte per lo show del sabato sera. Inutilmente luccicanti di ricchi premi e cotillon.
Natale lo lasciava indifferente, le solite cose, sempre. Il buono di certe feste è che vengono una volta l’anno. Magari sarebbe stato meglio ogni tre o cinque. Un po’ di neve non ci sarebbe stata male, ma anche questo non dipendeva da lui.
Ma ci sarà qualcosa che dipende da me? Meglio di no, che allora è sicuro che non funzionerà. Ecco, anche uscire è stata una stronzata.
Quello che lo infastidiva di più era quell’andirivieni incessante di gente. Lo urtavano malamente, quasi infastiditi dalla sua presenza. Chissà perché era sempre nel senso opposto a quello di marcia. Non che lo fosse, almeno a lui non sembrava, ma negli sguardi incrociati per caso ne avvertiva come il muto rimprovero. Tutti così determinati, sicuri. A un passo dalla meta. Ma quale meta?
Me ne torno a casa, meglio…
Quasi inavvertitamente si avviò verso i giardini. Giardini è una parola grossa, in effetti, per quello spazio strangolato tra il cemento e l’asfalto, due tigli e quattro cespugli d’oleandri, uno spiazzo di terra battuta e qualche esile ciuffo di verde, come su di un lucido cranio i capelli fieramente sopravvissuti a tempeste di testosterone. Una panchina sbilenca, con le assi di legno sconnesse. C’è sempre qualcuno che si diverte a ridurle così. Andrea si accomodò, quel luogo aveva la desolazione giusta, per starci dentro comodo, oggi.
Toh! E questo cos’è? L’avranno dimenticato.
Rigirò il libro tra le mani. “I due macachi”. Il titolo non gli sembrò un granché. Gli tornò in mente quella vecchia storiella del discepolo che vuole diventare saggio e per illuminarsi cerca di non pensare alle scimmie, restandone ossessionato.
Il macaco è una scimmia, no? Se almeno riuscissi a non pensare a Caterina. Ma deve essere una scimmia anche lei, visto che dal mio cervello malato non vuole andare via.
Un libro sottile, un centinaio di pagine, non di più. Raccolta di racconti, una copertina marrone stinto, con disegni geometrici vagamente floreali, come il velluto di certi divani o la tappezzeria di un tempo andato. C’era una dedica, sulla pagina bianca interna, una grafia sottile, incerta e tondeggiante, sicuramente una mano femminile. Due sillabe: Per te. E sotto un ghirigoro incomprensibile dell’autrice, che resterà ignota ai più. Nella quarta di copertina tanti nomi, in rapida successione di note biografiche abbozzate, ma ad Andrea non dicevano nulla, esordienti, pensò.
A ridosso della panchina, il lampione spandeva un chiarore giallastro vagamente retrò, contendendosi il buio col neon azzurrato e spettrale dell’insegna vicina. In quel chiarore innaturalmente neutrale, Andrea s’addentrò nel libro. Il ritmo della lettura era scandito, in lampi dorati e rossastri, dall’intermittenza delle luci natalizie della vetrina due metri più in là.
L’introduzione lo sorprese. Assenzio, l’Ottocento parigino e il "magasin de nouveautés" in Place de Saint Germain des Prés. Si sentì un po’ sciocco, con quella storia delle scimmie zen.
Le pagine erano di quella carta leggermente ruvida dai bordi irregolari, un po’ spessa, che lascia sotto i polpastrelli un che di farinoso. Alzò il libro e l’annusò. Sapeva di buono, come di pane stagionato in una vecchia madia. Ogni libro ha un suo odore caratteristico, un misto tra polpa di pane e d’inchiostro, declinato in mille umori, tra sfumature secche e sentori di muffa. In quello stato d’animo confuso tra il bohemien e le campagne toscane, Andrea lesse ancora.
E scoprì un popolo d’antiche e fiere guerriere, alla conquista di nuovi mondi. Percorse un intero universo tra un albero ed un muro. Apprese di Kona e Kina, di quanto siano micidiali, le armi degli umani. Poi si imbatté in una strana specie stravagante e le sue astuzie e sotterfugi per sopravvivere, per appropriarsi di uno spazio nella nostra vita. Andrea pensò che era sicuramente da salvaguardare, come specie. Costeggiò il dolore, perdendo tutto e mai la dignità, sconfitto da una giostra e da un sogno, mentre s’accendevano tutte le luci del mondo. Scoprì che anche un byte poteva avere una sua visione del mondo e ne condivise la terribile fine, sentendo che anche la sua vita sarebbe finita in un ciclo e la sua consapevolezza fusa col nulla. Si lasciò attraversare da venti di guerra, tra le pagine fitte di storie che compongono la storia. Pagine tristi e non fiere, di un passato mai lontano.
“…era meglio si facesse trascinare dalla prima boccata di vento buona verso Marsala.”
L’ultima riga, non era l’ultima, però. Pian piano nella sua mente prese forma un’isola lontana e possibile, con fuochi accesi sulla spiaggia deserta. Tra le capriole di fumo dei falò, percepiva le presenze. Gli sembrava di scorgere dei volti e, nei volti, sempre nuove identità. Tra i volti vide il suo e non se ne stupì.
Fine
Andrea si scosse, con la delusione di chi, ridestato bruscamente da un sogno, fatica ancora a congedarsene. Mentre richiudeva il libro, un pensiero tornò a farsi sentire. Acuto come uno spillo.
Già, Caterina… una storia che non ho scritto ancora, che forse non scriverò…
Arrotolò il libretto a tubo e lo compresse per bene nella tasca del giaccone. Un vago borbottio dello stomaco, forse era bene mandar giù qualcosa. Alzandosi si sentì un poco intorpidito, formicolante, la punta delle dita gelida, stranamente leggero. S’accorse quasi di colpo del tempo trascorso.
Non c’è più in giro nessuno… Accipicchia, com’è tardi!
Con quella strana leggerezza dentro, che nella mente diventava soffice ovatta, si avviò verso casa.
Un poco saltellando, per scuotersi da quell’immobilità nel gelo. Di colpo, capì.
Capì e sorrise, sulle labbra e nel cuore.
Ieri era finalmente ieri, non solo poche ore fa.
4 commenti:
Riprendo l'annunciato palinsesto e pubblico questo racconto di Rosalba, credo una delle più attente, appassionate e assidue frequentatrici de "I due Macachi".
Rosalba sostiene che l'ho sfidata a pubblicare e che ha raccolto il guanto ... chissà, forse è proprio così, anche perché sospetto che abbia, celati in qualche cassetto, racconti a valanghe, in attesa di essere divulgati :o)
Al di là del gioco letterario, o forse proprio per quello, il racconto di Rosalba mi pare parlare di lettori: di immersioni ed emersioni, di libri, librarsi, liberarsi.
E poi, buffo, riesce a farlo alla stessa maniera in cui scrive: mettendosi in gioco come lettrice. Davvero, c'è molto in questo gioco!
Non era facile giocare questo gioco di autoreferenzialità ma il risultato mi piace, certo sarebbe stato più divertente scriverlo tra un po' di tempo, ma comunque è ben riuscito.
Max.
il racconto di Rosalba mi sembra uscito da un negozio indiano di stoffe di seta. E' variopinto.
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