martedì 2 novembre 2010

I Nemici della Rete

Questo è un libro che non dovrebbe mancare nella biblioteca di ogni netizen. Scritto a quattro mani da Arturo Di Corinto, ricercatore e docente alla Sapienza, consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dell'Onu, autore di numerosi saggi e articoli per “Il Sole - 24 ore”, e Alessandro Gilioli, giornalista del "L'Espresso" e titolare del blog "Piovono rane", affronta, con ricchezza di documentazione e casi di studio, lo stato di arretratezza nella quale versa la Rete italiana, sospesa tra l'ignoranza, la supponenza e l'incapacità di comprensione di una classe politica inadeguata e inefficiente, come poche al mondo, e l'arrogante pretesa di bloccarne o ritardarne lo sviluppo per favorire altri media, sia per tutelare gli interessi economici del Presidente del Consiglio, sia per limitarne la forza dirompente di strumento di libertà.

Il libro mostra che il re è nudo, evidenziandone i lampanti conflitti di interesse, ma anche che l'opposizione non è certo più vestita, quando alcuni dei suoi principali leader dichiarano di avere più a cuore lo sviluppo di distretti piccoloindustriali (che da una Rete forte e diffusa avrebbero solo da guadagnare) o dimostrano di non aver capito che non esiste un “popolo della Rete”, virtuale e costituito da pallidi ectoplasmi che si abbronzano alla fioca luce del monitor, che non si sa come raggiungere né chi e cosa rappresenti. Parlare di “ popolo della Rete” ha senso come descrivere il “popolo di chi frequenta le palestre” o il “popolo di chi esce di casa alle sette di mattina”. È un modo semplicistico e qualunquistico per descrivere un fenomeno che non si conosce e non ci si sforza di avvicinare. Il “popolo della Rete”, tanto caro a politici e giornali in vena di approssimazione, siete tutti voi che state leggendo questo post, sono io che l'ho scritto, sono le persone reali, con gioie e dolori, debiti e problemi, che frequentano una Rete legata a connessioni obsolete, castigata da un immeritato divario digitale, frequentata da santi e malfattori, esattamente come il mondo reale, ma capace, tuttavia, di generare i suoi propri anticorpi.
La Rete fa paura al Presidente e ai suoi uomini, arroccati nella difesa di aziende televisive ed editoriali, perché è l'unico medium che vede aumentare i propri introiti pubblicitari e, soprattutto tra i giovani, mostra di avere un fascino ben superiore alla televisione.
La Rete è boicottata dai suoi gestori, che si devono rifare dei costosi investimenti fatti su tecnologie obsolete: non credo sia un caso che il principale fornitore di connettività italiano condivida la proprietà con il principale produttore di cavi.
La Rete è percepita dai nostri governanti non come un diritto inalienabile di tutti, ma come una graziosa concessione, come se vivessimo ai tempi di Maria Teresa d'Austria e dell'Illuminismo, e questo nei giorni nei quali l'Unione Europea e alcuni stati nazionali sanciscono l'inalienabile diritto dei cittadini, di tutti i cittadini, ad avere un'efficiente connessione a Internet.
La Rete fa paura ad alcune categorie professionali e imprenditoriali, che non sanno come fare affari su di essa e hanno il timor panico di veder erodere, fino alla scomparsa, rendite di posizione ormai anacronistiche e immotivate; i giornalisti meno avveduti e lungimiranti, poi, lungi dal capire le enormi potenzialità del web, pensano alla iattura di un'informazione libera e diffusa, nella quale tutti siamo produttori e consumatori di contenuti e notizie.
Infine della Rete fa paura la Libertà, di comunicare, di creare anche riutilizzando l'esistente, di scambiare notizie e informazioni, fa, in poche parole, paura tutto, come se ci si trovasse di fronte a un mostro dalle mille teste pronto a distruggere chiunque gli si accosti.
Nessuno si sforza di capire che la Rete è vitalità, velocità, una sorta di Zang Tumb Tumb futurista, ragnatela lungo i fili della quale corrono, in egual misura, creatività e sviluppo economico. Stando così le cose nel breve-medio periodo siamo destinati a diventare un paese da Terzo mondo, non solo per quello che riguarda la connettività alla Rete, ma anche lo sviluppo economico, sociale e culturale che a essa segue.
“I Nemici della Rete” è un libro polemico ma non settario, che evidenzia contraddizioni e meschinità, bizantinismi e piccinerie al limite del grottesco quando, ad esempio, si cerca di far passare come provvedimento contro la pedofilia on line una misura illiberale che, a scavare un po', mostra il volto dell'industria dell'intrattenimento, che si ostina a considerare furto quello che chiunque chiamerebbe condivisione, o le regole che, con la pretesa di combattere il terrorismo, impediscono la diffusione della connessione senza fili a banda larga.
Un orizzonte cupo dunque, da cyberpunk gibsoniano? No, l'Italia, come il solito, si mostra migliore di chi la governa e Arturo e Alessandro concludono il libro con pagine di ottimismo, nemmeno tanto cauto, e parole di speranza, descrivendo realtà giovani, coraggiose e consapevoli che lavorano, pur tra mille laccioli e difficoltà, per creare un futuro migliore per tutti.
“I Nemici della Rete” è un libro che va letto, prestato, diffuso e discusso per aumentare il livello di consapevolezza di tutti.
Mi piace concludere con una frase, ripresa dal libro, pronunciata Lawrence Lessig il 16 marzo 2010 a Montecitorio: “La guerra a internet è una guerra contro i nostri figli”; ne stiamo già facendo tante di guerre ai nostri figli: depauperamento delle risorse, inquinamento, debito pubblico ciclopico … non lasciamo loro in eredità anche questa.

Buona lettura.

La scheda del libro si può trovare qui:
e qui:

martedì 29 giugno 2010

“Prove di felicità a Roma Est” di Roan Johnson

Ho scritto e riscritto almeno tre volte questo commento anche perché, per un problema di salvataggio, si è perso tutto. Mai inconveniente fu più opportuno: infatti non stavo esprimendo le mie impressioni ma soltanto riassumendo la trama di questo romanzo.
Roan Johnson, nonostante il nome, è italianissimo; cresciuto a Pisa, da quando ha venticinque anni vive a Roma. Posso ipotizzare, non conoscendone la storia personale, che “Prove di felicità a Roma Est” sia una sorta di autobiografia, di narrazione ampliata e romanzata di quelle che sono state le sue esperienze di provinciale trapiantato nel “casino serissimo” della Capitale, dove ci sono locali e discoteche, attrici e veline, ma c'è anche tutto un mondo che si allarga verso la periferia. È qui, ai margini della città, che può succedere di tutto, anche di incontrare una guardia notturna che di giorno, per quattrocento euro al mese, è la giovane professoressa di scienze nel “liceo del calcinculo”, scuola privata dove si consegue la maturità dopo aver fatto tre anni in uno e dove il preside ha il televisore a schermo ultrapiatto da cento pollici e la vasca da idromassaggio in presidenza.
Lorenzo Baldacci, a cavallo della sua Vespa Primavera, arriva a Roma dalla provincia pisana per frequentare un costoso liceo privato e qui incontra Marchino, suo compagno di classe e, di sera, pony-pizza in un locale della periferia. È proprio Marchino che introduce Lorenzo nel mondo della periferia romana, dove la città diventa campagna e poi torna città e, di nuovo, campagna.
“Prove di felicità a Roma Est” è un romanzo di formazione, una sorta di “Giovane Holden” al Tuscolano, e racconta le peripezie, amorose e non, di Lorenzo e dei suoi amici, a partire, appunto, da Marchino, il primo del quale facciamo la conoscenza. Poche righe ne descrivono il profilo psicologico: “E allora ho capito perché Marchino mi ricordava il Pilloni e il Ciana, non tanto nel fisico, lui bassetto e moro quanto gli altri due biondi e giganti. La somiglianza era nella capacità di finire nei casini, nella serena accettazione delle sfighe. Perché si trattava di grandi incassatori, gente che i pugni, più che tirarli, aveva imparato a prenderli”.
Poi c'è Samia, la ragazza marocchina della quale Lorenzo si innamora. Lei, cameriera nella pizzeria, è la ragazza di Marchino, ma ha anche occasionali incontri con Vischio, altro dipendente del locale, e una storia con Lorenzo. La ragazza è indipendente, non si vuole sentire costretta, come spiega lo zio: “Non è mica stato facile: ha portato i suoi vestiti e le sue cose da un'amica un po' alla volta. Ha salutato tutti senza farglielo capire, sapendo che venendo qui a Roma non avrebbe rivisto nessuno. Si è decisa quando si è sposata sua sorella. È scappata la sera dopo il matrimonio. L'ha fatto per i suoi genitori, per farli stare tranquilli che almeno la sorella si era sistemata. Una figlia scappa, ma l'altra si sposa con un ragazzo scelto da loro: un buon pareggio fuori casa, no?”.
E Vischio, in un altro momento, rincara la dose: “Le altre sono sciape o mielose. Samia è salata”.
Soprattutto chi abita in una grande città, anche se non necessariamente Roma, non faticherà a rivedere nei personaggi di Johnson qualche bel tipo che conosce, personalmente o per interposta persona: che dire, ad esempio, del professor Garzoli, cugino della madre di Lorenzo, che ospita il ragazzo in casa sua e gli fa ripetizione di latino, greco, italiano e chissà cos'altro? Agorafobico, spinge il ragazzo a diventare pony-pizza, poi a vivere in una stanza in affitto, poi è entusiasta quando Lorenzo, assieme a Vischio, va a vivere in una scassatissima roulotte ai margini di un campo nomadi. È proprio questa esperienza di Lorenzo che aiuterà Garzoli a uscire di casa: comprerà un camper e, con la fedele badante ucraina Ileana inizierà a girare l'Italia, ma giusto per qualche mese, prima di morire.
Un altro personaggio che possiamo dire tutti di aver conosciuto è Scarpe Dorate, che frequenta la scuola e parla con disinvoltura di comprare la laurea: un tamarro, un villano arricchito, con scarpe che contengono, veramente, fili d'oro e Mini Cooper sulla quale ha fatto dipingere dei fori di proiettile. Scarpe Dorate è l'unico, vero antipatico del romanzo e un giorno porta Lorenzo e Marchino a vedere la presidenza, con il mitico schermo da cento pollici e l'ancor più mitica vasca da idromassaggio, destinata a diventare strumento della nemesi. Il giorno della maturità Lorenzo parte verso la scuola, ma tre bambini del campo Rom lo fermano e gli regalano un pesce siluro. Giunto a scuola, assieme a Marchino decide di andarlo a buttare nella vasca del preside. Facile intuire il trambusto che segue alla scoperta del pesciaccio in presidenza: esami ritardati e controlli severi sui candidati: a Scarpe Dorate trovano il telefonino, con il quale contava di farsi fare il compito da un prezzolato, e glielo sequestrano. Morale? L'antipatico è l'unico bocciato della scuola.
Lorenzo inforca nuovamente la Vespa Primavera e se ne torna a casa. Gli ultimi capitoli sono un po' come certi titoli di coda dei film americani, quando, in una frase, si descrive la vita successiva dei personaggi: Samia tornata a Genova, Marchino in partenza per la Germania, Lorenzo che va alla cena per salutare Marchino e incontra per l'ultima volta Samia.
Il finale è un po' malinconico, ma, francamente, un happy end avrebbe stonato.

giovedì 24 giugno 2010

"L'ombra del vento" di Carlos Ruiz Zafon

Di recente ho letto "L'ombra del vento", di Carlos Ruiz Zafon, e, devo dire, non mi ha deluso, ma nemmeno pienamente soddisfatto. L'autore è un bravo scrittore (a meno che la traduzione di Lia Sezzi non ne amplifichi i meriti), il testo scorre e avvince il lettore.
Veniamo al romanzo: non è un capolavoro assoluto della letteratura mondiale anche se ha un suo fascino; non è facilmente inquadrabile in qualche genere letterario, perché, a mio parere, non è un thriller, né un libro di avventura, o un horror, o un mistery o, ancora, un libro fantasy. La trama è complessa anche se alcuni colpi di scena sono prevedibili, come ad esempio la vera identità di Lain Coubert, il demone in carne e ossa che va in giro a bruciare libri, come una specie di Guy Montag (il vigile del fuoco di Fahrenheit 451) in anticipo sui tempi.
Il libro ha due protagonisti, Daniel Sempere e Julian Carax, un deuteragonista, appunto Lain Coubert, un antagonista, l'ispettore Fumero, assassino cinico e spietato, e tanti comprimari qualcuno dei quali, e mi viene in mente Fermin Palacio de Torres, tanto caricato da essere caricaturale. Lo stesso ispettore Fumero è così cattivo da sembrare un personaggio dei fumetti.
I due protagonisti, a un tratto, si trovano a vivere, a distanza di anni, quasi la stessa storia: entrambi perseguitati da Fumero, entrambi innamorati di una ragazza di classe sociale più elevata, e quindi contrastati nel loro sentimento, entrambi amici del fratello della loro innamorata e ben conosciuti dai di lei familiari.
A volte la trama si perde e sembra arrivare in un vicolo cieco: è in questi momenti che arriva qualcuno che racconta fatti che sono fondamentali per il prosieguo della vicenda. Di deus ex machina nel romanzo ce ne sono almeno tre e l'ultimo, un manoscritto che l'ultima vittima dell'ispettore Fumero ha lasciato al padre perché lo consegni a Daniel Sempere, è quello risolutivo, che taglia tutti i nodi e svela tutti i perché.
L'uso eccessivo di questi interventi esterni e inaspettati costituisce uno dei punti deboli del romanzo dal quale, forse, mi aspettavo altra articolazione nello svolgimento della trama. Un vago senso di fastidio, poi, l'ho provato nel leggere alcune pagine centrali del libro, che sembravano messe lì per arrivare a tagliare il traguardo delle quattrocento pagine, ma forse questa mia considerazione è troppo severa.
Lettura piacevole, divertente, anche avvincente, pur se, come abbiamo visto, con qualche limite, mostra la predisposizione dell'autore a scrivere libri per giovani, insomma, per quelli che non leggono più Henry Potter ma non hanno ancora affrontato Marquez.
Uno dei pregi del libro è l'ambientazione. Chi conosce Barcellona si trova a casa: la vicenda, infatti, si svolge nella città antica, quella del Barrio Gotico, del Born, della Ribera, del Raval, fatta di viuzze, di odori, di case di mattoni, di un'architettura più semplice e meno colorata di quella della Barcellona modernista, di Gaudì e degli altri architetti di fine Ottocento, inizi Novecento e questa ambientazione un po' gotica non nuoce al romanzo, anzi, gli conferisce un certo non so che.

sabato 19 giugno 2010

Bellezza inutile

Bella era, ma di una bellezza inutile, iperreale, quasi irritante nella sua perfezione. La vedevo tutti i giorni, occhieggiava dai manifesti giganti ai lati della tangenziale, vestita di un due pezzi o di reggiseno e mutandina, secondo la stagione. Mi guardava, con lo sguardo vuoto, perso in un viso privo di quelle piccole imperfezioni, di quei nei, di quelle sottili asimmetrie che fanno la vera bellezza. Le labbra, perennemente socchiuse in un broncio da lolita fuori stagione, volevano simulare un sorriso ma sembrava un archetipo, prototipo creato da un ingegnere perfezionista.
La posa voleva, forse, essere provocante, ma non mi dava affatto quell'impressione: sembrava una bambola di pezza che uno scenografo attento avesse disposto su di un palcoscenico. Un ricciolo, sempre quello, scendeva curvando dalla fronte verso l'angolo della bocca, dalle labbra color labbra e dai denti color denti.
A volte pensavo che non fosse una modella, un essere umano, ma una creazione di qualche maestro della grafica tridimensionale, un avatar talmente perfetto da sembrare quasi reale, poi, dentro di me, pensavo: “ma certo che è bella, ma certo che è senza difetti, è il suo mestiere. C'è chi lavora in ufficio, in fabbrica, in negozio, lei lo fa dal massaggiatore, dall'estetista, sul set fotografico. Come altro deve occupare il suo tempo tra un un manifesto e l'altro? Deve solo curare il suo viso, il suo corpo”.
Questo pensavo mentre la tangenziale scorreva sotto le ruote della mia automobile, a volte veloce, a volte a passo di lumaca. I giorni diventavano settimane, le settimane mesi, i mesi stagioni e lei era sempre lì, sui manifesti, inutilmente bella, a volte con un bikini a fiori, a volte con un reggiseno di pizzo coordinato con una brasiliana. La posa cambiava a ogni manifesto, ma, per qualche motivo a me ignoto, sembrava sempre la stessa.
Quel lunedì presi, come il solito, la tangenziale; arrivato al punto dove sorgeva il primo cartellone, con un riflesso condizionato alzai gli occhi a guardare ... a guardare cosa? Lei era scomparsa, la sua abituale figura discinta era stata sostituita dal manifesto che pubblicizzava un'auto sportiva; ebbene, quasi una sorta di contrappasso, quell'auto mi sembrò inadeguata, fuori posto. Il senso di meraviglia per la scomparsa di un'abitudine mi prese, quasi come se, rientrando a casa, la sera avessi scoperto che il mio vicino era morto improvvisamente, o che una forza misteriosa aveva cancellato la montagna che, ogni mattina, guardavo affacciandomi alla finestra. Che ci faceva lì quell'auto, chi aveva permesso all'agenzia di affissioni di cambiare il manifesto? Proseguii, fidando nel prossimo cartellone ... Orrore! L'archetipo della bellezza era scomparso anche da lì; al posto del suo broncio da lolita fuori stagione un manifesto annunciava che al Politeama si sarebbe rappresentata la commedia musicale dell'anno. Continuai a cercare con gli occhi il manifesto sempre diverso ma sempre uguale: lungo tutta la tangenziale non ve n'era più la minima traccia. Qua la pubblicità di un negozio di scarpe, là quella di una bibita gassata, là ancora, sacrilego, un manifesto pubblicizzava una marca di biancheria intima, ma la modella era deliziosamente imperfetta, bella, anzi stupenda, con una leggera asimmetria tra gli zigomi e un neo maliziosamente poggiato su una spalla. Bellissima, sì, ma non inutilmente bella.
Non sapevo darmi pace. Che fine aveva fatto il prototipo della bellezza, dov'era scomparso quel pezzo di paesaggio che accompagnava la mia vita in tangenziale? Quale pozzo aveva inghiottito l'iperrealtà, come un buco nero ingoia qualunque cosa gli passi vicino, luce compresa?
Quella mattina non riuscii a lavorare; la mia prima preoccupazione fu quella di accendere il computer, collegarmi a Internet e cercare sul web notizie. Notizie di chi o di cosa? Il nome che troneggiava sui manifesti era certamente un marchio di fantasia, un'etichetta destinata a vivere finché le vendite la nutrivano. Tentai ugualmente e febbrilmente digitai quelle parole, che ricordavo a stento, nella casella di un motore di ricerca e maledissi gli esperti di marketing che avevano usato, come marchio, una frase di uso più che comune.
Il risultato fu sconfortante: oltre sei milioni di pagine la contenevano, impensabile leggerle tutte. Provai a raffinare la ricerca: nulla! Pensai di aver sbagliato a scrivere e tentai con infinite varianti: al singolare, al plurale, invertendo le parole, provando con sinonimi, contrari, errori di battitura ... nulla!
Giornata inutile, persa nella ricerca di un fantasma, di un ectoplasma evanescente. Come poteva un manifesto, che neppure mi piaceva tantissimo, avermi stregato al punto da farmi dimenticare ogni altra cosa? Come poteva quel sorriso che sorriso non era, quella bambola di pezza in carne, ossa e carta, farmi cercare affannosamente un sacro graal che sacro graal non era?
Folgorato da un'idea iniziai a entrare nei negozi di biancheria per signora, inventandomi la pietosa bugia di un regalo e chiedendo notizie su ”quella marca sa, quella che si vedono i cartelloni in giro, con quella bella ragazza mora”; non avete idea di quante marche di biancheria intima ci siano e di quante siano pubblicizzate sui cartelloni da belle ragazze more.
La frustrazione mi prese; feci ancora qualche tentativo, ma sempre più fiacco, sempre più svogliato: i giorni diventarono settimane, le settimane mesi, i mesi stagioni; lentamente la bellezza inutile sfumava in un ricordo che portava seco un senso di vago rimpianto, di malinconia, di incompletezza. Smisi di guardare i cartelloni pubblicitari, mi concentrai solo sulle targhe e sui tubi di scarico delle automobili che mi precedevano finché, dopo che molte altre manciate di chilometri erano passate sotto le mie ruote, un giorno alzai nuovamente gli occhi.
No, non mi potevo sbagliare, quel ricciolo curvo verso quella bocca dalle labbra color labbra, socchiusa in un broncio che scopriva quei denti color denti, era inconfondibile; la bellezza inutile era tornata, vestita solo di una tazzina di caffè e di uno slogan.
Provai un vago senso di imbarazzo, un po' come quando si incontra un'antica fidanzata o un vecchio compagno di liceo, quasi calvo e con la pancetta: “Sei sempre uguale, per te il tempo non passa mai”, la pietosa, usuale menzogna. Quell'inutile bellezza, là, su quel manifesto, con quello slogan che magnificava le doti di quel caffè, ebbene, quell'inutile bellezza non era più la stessa, come se la delusa frenesia con la quale l'avevo cercata solo pochi mesi prima l'avesse, in qualche modo, imbolsita, avesse trasformato la sua bellezza in un mazzo di rose secche.
L'avevo ritrovata ma, in qualche modo, l'avevo persa di nuovo e la tangenziale, indifferente, continuava a scorrere sotto le mie ruote.

domenica 13 giugno 2010

Ho letto: "Il Barone rampante" di Italo Calvino

Cosimo Piovasco Barone di Rondò, nobiluomo ligure della fine del Settecento, ha, fin dalla preadolescenza, una vita ricca e densa di avvenimenti. Si è costruito una cultura vastissima, che gli ha permesso di intraprendere scambi epistolari con Enciclopedisti e filosofi, ha realizzato opere idrauliche e istituito un corpo di volontari deputato a spegnere gli incendi dei boschi, combattuto i pirati Barbareschi, vissuto innumerevoli avventure galanti e un grande, grandissimo amore per la Marchesina Violante D'Ondariva, detta la Sinforosa, è stato Gran Maestro di una loggia massonica, ha guidato il popolo di Ombrosa nella rivolta contro i Genovesi e incontrato Napoleone Bonaparte.
Nella sua lunga vita ha conosciuto ladri di frutta, librai ebrei, briganti e nobildonne genovesi (le "Cinque Passere"), blasonati spagnoli in esilio e infidi Gesuiti, ufficiali di marina e carbonai bergamaschi. E' stato cacciatore, spadaccino, tipografo e chissà cos'altro ancora. Una vita piena e avventurosa, che lo ha reso famoso in tutti i salotti europei, pur se non si è mai allontanato da Ombrosa.
Come mai è così conosciuto anche se altri contemporanei hanno avuto vite più avventurose della sua? A cosa è dovuta la fama di "buon selvaggio" che lo accompagna? Al fatto che Cosimo Piovasco Barone di Rondò dall'età di dodici anni, e precisamente dal 15 giugno del 1767, vive sugli alberi.
Un atto di ribellione di fronte a un piatto di lumache rifiutato, una discussione con il padre, il severo Barone Arminio, e Cosimo esce dalla villa paterna per salire su un maestoso elce che troneggia nel giardino, giurando che non sarebbe mai più sceso a terra. E mantiene la parola, come racconta il fratello minore Biagio, voce narrante del romanzo.
Una sola volta si allontana da Ombrosa: quando, per la curiosità di conoscere certi Spagnoli, arboricoli come lui, se ne va al vicino borgo di Olivabassa, sempre per vie aeree, e si trattiene colà per qualche tempo; e una sola volta abbandona i suoi alberi per trovarsi aggrappato al pennone di una scialuppa, in fondo un albero pure quello, a combattere con tre ufficiali barbareschi.
Grande la fantasia di Calvino nel generare il protagonista, e grande anche la sua maestria nel tratteggiare gli altri personaggi della storia a cominciare da Viola, la Sinforosa, che il Barone conosce quando sono entrambi bambini, e che sparisce dalla sua vita per qualche anno, per rientrarvi prepotentemente. La loro è una storia d'amore profondo e di grandi slanci, che termina perché lui non vuole ammettere di essere geloso, mentre lei è quello che desidera per sentirsi più amata. Troppo orgogliosi per cedere, si lasceranno e le vicende storiche faranno sì che non si incontrino mai più, pur essendo fatti l'una per l'altro.
Che dire, poi, del Cavaliere Avvocato Enea Silvio Carrega? Fratello naturale del padre di Cosimo, idraulico e sovrintendente alle proprietà della famiglia, sembra di vederlo, questo ometto con la zimarra e il fez, abbigliamento rimastogli per certi trascorsi Ottomani che lo porteranno a una tragica morte.
O ancora della Generalessa madre? A dispetto della rigida educazione militaresca ricevuta dal teutonico genitore, è mossa da slanci di amore verso quel figlio bizzarro, osservato nelle sue evoluzioni arboree grazie a un cannocchiale da campo. In punto di morte la Generalessa vorrà essere accudita solo da Cosimo che, appollaiato su un ramo fuori la finestra, grazie a certe lunghe pertiche soddisferà le sue richieste.
Ci sono altri personaggi minori, come il brigante Gian dei Brughi, la sorella Battista, cuoca del piatto di lumache che scatenerà la ribellione, l'abate Fauchelafleur e così via, figure di sfondo di un affresco pieno di brio.
Non poteva mancare un cane fedele: il bassotto Ottimo Massimo. Difficile immaginare un'accoppiata più scombinata: il cane vive rasente il terreno e il padrone si muove di ramo in ramo e di albero in albero, in un mondo tridimensionale negato ai comuni mortali.
Poteva mai il Barone Cosimo Piovasco di Rondò morire in un letto al termine della sua vita arborea? Certo che no, anche se il fratello Biagio e gli abitanti del paese gli allestiscono un letto a baldacchino sul noce della piazza: un giorno vede apparire una mongolfiera, si aggrappa alla corda dell'ancora penzolante dal pallone e sparisce verso il mare. Non se ne saprà più nulla.
Le invenzioni sono tante e tante, in uno scoppiettante gioco di immaginazione, e rendono "Il Barone rampante" una lettura godibilissima e un romanzo fuori dagli stereotipi: bellissimo!

domenica 6 giugno 2010

Ho letto: "Fahrenheit 451" di Ray Bradbury

Strano titolo per uno strano libro: 451 gradi Fahrenheit è la temperatura alla quale la carta brucia. Più poetico il sottotitolo della traduzione italiana: "Gli anni della Fenice", che racchiude in sé il tema del fuoco e quello della rinascita. Il tema portante del libro è molto semplice: il Potere ha deciso che i libri sono pericolosi e, pertanto, devono essere distrutti. Cultura, notizie e verità possono arrivare solo dalla televisione, più facile da amministrare e da somministrare. In fondo sotto il sole non c'è nulla di nuovo: si narra che il califfo Omar, dopo che le sue truppe avevano conquistato Alessandria d'Egitto, a proposito dei libri della Biblioteca dicesse: «In quei libri o ci sono cose già presenti nel Corano, o ci sono cose che del Corano non fanno parte: se sono presenti nel Corano sono inutili, se non sono presenti allora sono dannose, in ogni caso i libri vanno distrutti».
L'autore, Ray Bradbury, è considerato uno scrittore di fantascienza, ma, forse, è più corretto definirlo un favolista: in "Cronache marziane", ad esempio, manca quasi del tutto il sottofondo scientifico che c'è in altri autori di genere e Marte potrebbe essere una sorta di Far West prossimo venturo, mentre nell'"Uomo illustrato" i tatuaggi che ricoprono il corpo del protagonista si animano a raccontare tragiche storie. Anche "Fahrenheit 451", sinistra utopia di un'America del futuro, non sfugge a questo stile: pompieri che appiccano gli incendi anziché spegnerli, autopompe con il simbolo della salamandra, animale creduto in grado di vivere nel fuoco, gonfie di cherosene per accendere roghi di libri, televisori spalmati sulle pareti delle stanze che proiettano continuamente soap, i protagonisti delle quali interagiscono con gli spettatori, letali segugi meccanici in grado di stanare, inseguire e giustiziare chiunque. Sullo sfondo una guerra combattuta lontano dai confini, della quale si percepisce a malapena l'eco.
Nella Los Angeles di questo mondo alieno si muove Montag, il protagonista del romanzo, un pompiere che gode nell'accendere libri e case di bibliofili, inebriandosi dell'odore del cherosene, finché non incontra l'adolescente figlia dei nuovi vicini di casa e deve fare i conti con i suoi atteggiamenti non convenzionali (un giorno la trova distesa su un prato che vuol capire cosa si prova a essere morti). Scopre, o riscopre, un mondo al fuori e al di là del suo lavoro e della televisione e inizia a pensare.
Un giorno Montag infrange le regole e legge, di nascosto, un libretto che avrebbe dovuto bruciare. Affascinato, inizia a sottrarre i libri ai roghi, li ammassa in casa, provoca la moglie affinché anche lei abbandoni quello stile di vita artificiale, ma è tutto inutile. Montag inizia a frequentare Faber, un professore in pensione, che vuole in qualche modo combattere il potere e che gli da una radio ricetrasmittente da tenere nascosta in un orecchio per mantenere sempre il contatto con lui.
Un giorno arriva una chiamata: la squadra di Montag parte per intervenire e il nostro protagonista scopre che la casa che devono incendiare è la sua: Millie, la moglie, lo ha denunciato e Montag la incrocia mentre in lacrime abbandona la casa. Montag entra e inizia a incendiare tutto, a partire dalla stanza dei televisori, consapevole che, quando avrà finito l'opera di distruzione, sarà arrestato. Uscito di là ha un confronto con il suo capo che scopre la ricetrasmittente; Montag, per proteggere Faber, lo uccide puntandogli contro il lanciafiamme. La ribellione è completa e Montag non può che scappare.
Nella sua fuga incontra un gruppo di persone che lo invitano ad aggiungersi a loro: hanno seguito la sua vicenda su un televisore portatile, lo conoscono e sanno che quello che è stato presentato come l'epilogo della sua ribellione (il segugio che raggiunge un uomo, lo abbatte e gli pratica un'iniezione letale) è, in realtà, una messa in scena. Quegli uomini appartengono a una comunità, che conta migliaia di aderenti, e ognuno di loro ha imparato a memoria un libro, del quale ha assunto il titolo come nome, per preservarlo dall'oblio.
Mentre si allontanano dalla città sentono passare un gruppo di aerei a reazione che viaggiano in direzione contraria alla loro: «E la guerra cominciò ed ebbe fine nello stesso istante».
Montag e gli uomini-libro iniziano il loro cammino verso la Città, verso un posto dove la civiltà, come la Fenice, potrà risorgere dalle sue ceneri.
"Fahrenheit 451" è il manifesto di un pessimismo cupo e disperato, come il quasi coevo "1984" di George Orwell. In entrambi i libri il Potere esercita un assoluto controllo usando la televisione, sorta di Giano bifronte che da un lato trasmette messaggi propagandistici e dall'altro spia la vita dei cittadini, e la cultura è vista con sospetto: da un lato si bruciano i libri, dall'altro esiste un apposito Ministero che si occupa di adattarne il contenuto a quelle che sono le verità più gradite al Potere.

venerdì 4 giugno 2010

Ho letto: "Anonimo veneziano" di Giuseppe Berto

Qualche giorno fa passeggiavo per Portalba, il quartiere dei librai napoletano, dove, rovistando tra le bancarelle, è sempre possibile fare qualche scoperta interessante. Su un banchetto, in mezzo a vecchi tomi muffiti e polverosi, ho trovato un librettino, di poco più di cento pagine, dal titolo conosciuto: "Anonimo Veneziano".
Avevo visto il film, uscito nel 1971 per la regia di Enrico Maria Salerno e interpretato da Florinda Bolkan e Tony Musante, ma non conoscevo il romanzo. Rapida lettura all'introduzione dell'autore ed ecco svelato il mistero. Il romanzo era derivato dai dialoghi che Giuseppe Berto aveva scritto per Salerno. Il parlato era lo stesso del film ma tutta la parte descrittiva, che in un'opera cinematografica è affidata alle immagini, era stata ottenuta ampliando le didascalie, ossia le descrizioni che lo sceneggiatore fornisce al regista.
Quando da un libro deriva un film, spesso il risultato è, in qualche modo deludente: qui il percorso seguito è quello inverso, perché è dal film che è derivato il romanzo e il risultato, che poteva essere altrettanto deludente, è, al contrario, sorprendente, nonostante un incipit di rara lentezza, quasi scostante.
La storia è una storia d'amore tra un lui e una lei dei quali non conosciamo nulla, se non brandelli di vita: non il nome, non l'aspetto fisico, se non come sono vestiti, e pochissimi altri particolari, come il seno piccolo di lei e la capigliatura di lui.
I nostri si sono amati tantissimo, di un amore carnale e disperato, litigioso, infedele, almeno da parte dell'uomo. Si sono sposati perché lei era incinta e si sono separati perché a un certo punto sempre lei non riusciva più a sopportare le sregolatezze dell'uomo, il suo scialacquare un limpido talento di musicista.
Lui l'ha chiamata a Venezia, una Venezia autunnale, morente, quasi in decomposizione, e lei arriva, diffidente, aspettando chissà quali iniziative del marito, che le ha sempre rifiutato la separazione. Lei vive a Milano, è la compagna di un uomo ricco, dal quale ha avuto una seconda figlia, e teme che il marito voglia soldi per concederle la separazione, o avanzi pretese sul figlio, che non vede da otto anni, o chissà cos'altro.
L'incontro in stazione è quello di due animali che si guatano, si fiutano, si temono: Venezia fa da testimone ai loro bisticci, alle loro piccole crudeltà reciproche, al loro amarsi ancora nonostante tutto. "Nec tecum nec sine te vivere possum": non possono vivere assieme ma nemmeno separati, questa è la scoperta di quel pomeriggio. Lei si rende conto che, nonostante i litigi, nonostante gli otto anni trascorsi, lo desidera ancora e crede, o in fondo spera, che lui l'abbia fatta venire a Venezia per fare l'amore.
Lui le racconta che, assieme a un gruppo di giovani musicisti, sta incidendo, in quella che era stata la loro casa, trasformata parzialmente in studio di registrazione, un concerto per oboe e archi di Alessandro Marcello, musicista veneziano del XVIII secolo. fratello del più noto Benedetto. Questa incisione è una sorta di testamento spirituale che lui lascia ai posteri e, soprattutto, al figlio, che praticamente non ha nemmeno conosciuto, per dimostrare la grandezza del suo genio. Testamento perché è afflitto da un male incurabile, un tumore al cervello che gli lascia soltanto pochi giorni di vita. Questo è il motivo che lo ha spinto a chiedere alla moglie di venire a Venezia.
Mentre ascoltano la registrazione del primo movimento del concerto i due si riavvicinano, scoprono di amarsi ancora, riscoprono un'intimità dimenticata. Poi arrivano i musicisti per registrare un altro movimento del concerto e lui le chiede di rientrare a Milano; lei vorrebbe fermarsi ma lui è irremovibile. Comincia la registrazione e lei è sulla porta che non sa risolversi ad andarsene: lui sbaglia il tempo, stona, non è lucido. Le fa segno di andarsene; lei si decide, esce da quella casa, che un tempo fu di entrambi, e scende le scale allontanandosi per tornare in stazione. Lui riprende l'oboe. Un cenno. La musica riparte potente e limpida.